mercoledì 11 dicembre 2013 - Ermete Ferraro

Oltre ai test, fa funzionare le teste

La "testificazione" della didattica e la standaridizzazione degli apprendimenti è ormai un elemento comune alla maggioranza dei sistemi scolastici. Ma in alcuni casi - ad esempio negli USA - si sono raggiunti limiti di ossessione che hanno fatto scattare la dura protesta di docenti, presidi e pedagogisti. In Italia l'invalsizzazione della scuola è ancora alle prime fasi, ma la tendenza a non contrastarla a sufficienza - adattandosi alle direttive ministeriali - è davvero preoccupante. Da un articolo del prestigioso "Washington Post" ecco, allora, un contributo molto stimolante, per riflettere sulla degenerazione dell'insegnamento e sull'incapacità di tali sistemi educativi di stimolare l'immaginazione e la creatività degli studenti.

Mentre da noi, in Italia, sui giornali si parla di scuola solo in occasione delle occupazioni degli studenti o degli scioperi dei docenti, su prestigiosi quotidiani statunitensi è aperto da lungo tempo un vivace dibattito sulla riforma dell’istruzione e, in particolare, sulla mutazione genetica che ha trasformato la scuola in un “testificio”. Una particolare attenzione a questo problema è riservata dal Washington Post, le cui rubriche dedicate all’educazione riportano spesso articoli riguardanti il “Common Core” (cioè l’imposizione di un "nucleo" didattico comune a tutte le scuole di tutti gli stati degli USA) e la valutazione (degli alunni, ma anche dei docenti e perfino delle istituzioni scolastiche) mediante una massiccia somministrazione di test standardizzati.
 
Sebbene sulla goffa imitazione di questa modalità si direbbe che qui in Italia quasi nessun pedagogista trovi nulla da ridire, negli Stati Uniti il dibattito è invece molto acceso. Lì sono scesi da molto tempo in campo nutriti e combattivi gruppi di dirigenti scolastici, educatori, insegnanti e genitori, contestando l’assurda mania dei test di valutazione e la standardizzazione dei programmi didattici, in nome della libertà d’insegnamento e del rifiuto di simili criteri di selezione.
 
A questo tema ho già dedicato alcune note, l’ultima proprio sulla rivolta di chi, negli USA, si batte per “stop this madness". Recentemente, però, mi è capitato di leggere un altro stimolante articolo sull’argomento, nel quale Marion Brady – noto pedagogista e docente con lunga esperienza – ha affrontato criticamente un altro importante aspetto negativo di tale impostazione. La sua attenzione si è focalizzata, infatti, sulla banalizzazione dell’istruzione per garantire a tutti alcune indistinte e generiche “competenze minime”, rinunciando a perseguire obiettivi formativi più ambiziosi, ad esempio stimolare la creatività personale. 
Come “alimentare l’immaginazione” dei ragazzi, mortificata da una scuola sempre più appiattita e funzionale ad una società mercantile, omogeneizzata e guidata da un pensiero unico, è viceversa la preoccupazione di un veterano dell’istruzione come Brady, che non si rassegna ad una scuola che “insegna per i test”.
“Quelli che prestano attenzione sanno che la mania di testare le prestazioni di alto livello ha spinto centinaia di migliaia di bambini fuori dalla scuola, ha banalizzato l’apprendimento, ha radicalmente limitato la capacità dell’insegnante di adattarsi alle differenze tra discenti ed ha portato a fine molti programmi di educazione fisica, artistica e musicale. Ciò avvantaggia ingiustamente coloro che possono permettersi la preparazione ai test, rende il Congresso il consiglio d’amministrazione delle scuole d’America, crea irragionevoli pressioni ad imbrogliare, fa chiudere le scuole di quartiere, corrompe la professione docente e blocca tutte le innovazioni, tranne quelle i cui risultati possono essere misurati da macchine, giusto per iniziare un elenco molto più lungo…” (art. cit.).
Se noi italiani fossimo capaci d’imparare dall’esperienza altrui, quella maturata in decine d’anni di applicazione alle scuole statunitensi di questo modello dovrebbe renderci estremamente cauti nell’importarlo a cuor leggero nel nostro contesto, fra l’altro molto differente. Il problema, peraltro, non consiste affatto in un irrazionale rifiuto dei docenti italiani a sottoporsi ad una valutazione oggettiva dei processi di apprendimento che sono riusciti ad avviare nei loro studenti. La questione riguarda piuttosto chi giudica cosa e in quale modo, cioè la legittima contrarietà da parte di molti insegnanti a sottoporre questa pur necessaria valutazione a meccanismi piuttosto discutibili, in nome d’una pretesa uniformità a criteri internazionali, livelli standardizzati ed a competenze selezionate in base a tassonomie didattiche decise in modo verticistico.
“Ridotto all’essenziale, ecco come funziona il sistema per mettere alla prova la competenza minima. Le Autorità stilano elenchi di quello che ritengono che i ragazzi dovrebbero sapere. Le liste sono date agli insegnanti, insieme con l’ordine di insegnare ciò che vi è scritto sopra. Test standardizzati controllano se gli ordini sono stati eseguiti. Qualcuno (non i docenti) imposta in modo arbitrario la linea di demarcazione tra passare o non passare il test e i ragazzi che avranno ottenuto un punteggio oltre il taglio sono considerati “minimamente competenti. Vi sembra ragionevole ? La maggior parte delle persone sembrano pensare così. Però le scuole che si concentrano su competenze minime non possono produrre ragazzi abbastanza intelligenti per affrontare i problemi che si preparano ad ereditare…” (ibidem).
L’autore dell’articolo, dopo la sua efficace requisitoria contro questa fallimentare modalità didattica, suggerisce anche un efficace antidoto ad essa: una scuola che non punti a selezionare i discenti in base ad un’arbitraria linea di demarcazione tra chi supera o meno le prove strutturate, ma miri piuttosto a stimolare le loro capacità immaginative, logiche ed argomentative. Secondo Brady, progettare il futuro ed imparare a risolvere i problemi sono le competenze-chiave da privilegiare, ragion per cui politiche dell’istruzione che vanno in ben altra direzione preparano un inarrestabile declino dell’educazione. Egli puntualizza poi che, per rendere i progetti formativi capaci di stimolare l’immaginazione, occorre che essi rispondano a sette fondamentali condizioni:
(a) devono essere compiti intellettualmente impegnativi ma fattibili;
(b) devono essere concreti anziché astratti;
(c) devono appartenere al mondo reale e non a quello delle teorie;
(d) devono utilizzare tutte le discipline scolastiche;
(e) richiedono un dialogo basato sul pensare ad alta voce;
(f) la maggior parte dei ragazzi li deve trovare abbastanza interessanti da suscitare emozione;
(g) richiedono agli studenti di passare dall’immagazzinare nella mente conoscenze preesistenti al creare nuove conoscenze.
 
Certo, le problematiche dell’istruzione pubblica nel nostro Paese sono molto diverse da quelle degli Stati Uniti e la nostra società è oggettivamente differente dalla loro. Ciò non toglie che queste indicazioni possano applicarsi anche alla scuola italiana, per contrastare la diffusa tentazione di uniformarsi ad una metodologia didattico-educativa che sta sempre più contabilizzando i saperi come una qualsiasi azienda, a forza di privilegiare conoscenze “misurabili” e di perseguire competenze sempre più uniformi. 
 
Credo quindi che portare avanti progetti come quelli suggeriti da Marion Brady nel suo articolo potrebbe essere un modo valido per evitare che la dittatura del pensiero unico e della standardizzazione renda sempre più grigia la nostra scuola, utilizzando queste “verifiche” come pretesto per una selezione pseudo-meritocratica dei docenti, delle classi e degli istituti.
“Per questi riformatori, i “dati” significano soprattutto i punteggi alle prove standardizzate. [...] Essi possono essere indebitamente usati dai politici e far affluire miliardi di denaro pubblico nelle casse delle corporations per pagare servizi di consulenza e materiali di preparazione ai test. Questo è ciò che le prove fanno. Ciò che non fanno, che non possono fare e non saranno mai capaci di fare, è misurare quelli che sono probabilmente i più preziosi risultati di una buona istruzione: l’immaginazione e la creatività. “ (ibidem)
Non sarà certo l’invalsizzazione della scuola italiana che assicurerà il successo scolastico dei nostri ragazzi e la qualità dell’insegnamento. La sfida della personalizzazione dei percorsi formativi e dell’apertura ad una cultura da costruire più che da trasmettere passivamente è troppo importante per essere ridotta alle elaborazioni statistiche dei dati raccolti somministrando le prove nazionali. Ma se i docenti per primi perderanno la loro carica d’immaginazione e di creatività, pur di adeguarsi alle direttive di vertice e di assicurare punteggi abbastanza alti alla propria classe, trionferà la logica delle programmazioni copia-e-incolla e delle crocette sui test.
 
Strumenti indubbiamente utili per la redazione dei registri elettronici ma assai poco adatti ad un insegnamento che miri a formare intelligenze e coscienze autonome.
 
© 2013 Ermete Ferraro (http://ermeteferraro.wordpress.com )


2 réactions


  • Truman Burbank Truman Burbank (---.---.---.251) 11 dicembre 2013 12:43

    Buon articolo. Con un errore di fondo, presente nella frase "Strumenti ... poco adatti ad un insegnamento che miri a formare intelligenze e coscienze". Come se il fine dell’insegnamento fosse il formare intelligenze e coscienze.
    Diceva giustamente Jerome Bruner "l’insegnamento è prima di tutto un problema politico". Era una sua analisi dello sfascio della scuola negli USA, una delle peggiori del mondo (con particolare riferimento alla scuola di base, lo so che ci sono università eccellenti). Qui emerge il fatto che la scuola fa parte di un sistema politico dove l’ignoranza della popolazione può essere funzionale al mantenimento dei poteri esistenti, e solitamente lo è. E allora se non si riconosce che una scuola che sembra non funzionare può svolgere perfettamente il suo voluto ruolo politico, il problema non si risolve.
    La scuola istituzionale può servire a difendere un sistema e allo stesso tempo può dare conoscenze utili:
    - se il sistema istituzionale ha reali valori;
    - se il patto in base al quale lo studente accetta i valori dell’istituzione e l’istituzione fornisce un premio a chi termina ogni ciclo di studio viene compreso ed accettato da ambedue le parti;
    - in sostanza se l’istituzione riesce a formare dei cittadini che si conformano ai suoi valori e se tale formazione viene poi premiata nela vita lavorativa.
    (C’è anche altro Bruner evidenziava che la scuola non può preparare alla vita, ma deve essere anche essa stessa vita, ma qui interessa di meno).

    In definitiva i test vari servono a fare business alle spalle di studenti e insegnanti, sono sostanzialmente una truffa costruita sull’assenza di verità.


  • (---.---.---.54) 11 dicembre 2013 18:52

    Mi chiedo senza i compiti in classe come si possa avere un idea riguardo la valutazione di uno studente.


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