lunedì 21 maggio 2012 - Riccardo Noury - Amnesty International

Dittatura, il Brasile inizia a fare i conti col passato

Sabato scorso, la presidente brasiliana Dilma Rousseff ha preso una decisione storicanominando i sette membri della Commissione per la verità (nella foto) che dovrà fare luce sui crimini commessi durante la dittatura militare che governò il paese sudamericano dal 1964 al 1985.

 

La Commissione era stata istituita con una legge approvata dal parlamento brasiliano nel novembre scorso. 

Un passo non scontato da parte delle istituzioni del paese, se si pensa che appena due anni fa, nell’aprile 2010, la Corte suprema federale aveva riaffermato la legittimità della Legge d’amnistia del 1979, il provvedimento con cui i militari si erano autoassolti, per il passato, il presente e il futuro. Nel dicembre 2010, la Corte interamericana dei diritti umani, aveva stabilito che la Legge d’amnistia era in contrasto con la Convenzione americana dei diritti umani e non doveva continuare a ostacolare le indagini e i procedimenti giudiziari sui crimini della dittatura.

 

Pare, allora, che l’odiosa vernice dell’impunità, con cui la Legge d’amnistia del 1979 aveva cercato di coprire le torture, le esecuzioni extragiudiziali e gli altri crimini commessi nel “ventennio” brasiliano, possa essere grattata via. Il Brasile è l’unico dei paesi dell’America meridionale in cui non sia stata emessa alcuna condanna per le violazioni dei diritti umani verificatesi sotto le giunte militari.

Perché questo “zero” nella casella delle condanne sia cancellato è importante, sottolineano le organizzazioni per i diritti umani, che la Commissione per la verità sia isolata dalle interferenze politiche e dotata di tutte le risorse, economiche e strutturali, per lavorare in modo indipendente e approfondito. Pur non avendo valenza giudiziaria, le conclusioni della Commissione potranno contribuire allo sviluppo delle indagini in corso e di quelle che, auspicabilmente, si apriranno in futuro.

Una, avviata da poco, riguarda la sparizione di Aluizio Palhano Pedreira Ferreira, un avvocato e sindacalista “scomparso” nel maggio 1971 dopo essere stato arrestato da agenti della sicurezza militare. Secondo testimonianze dell’epoca, prima di sparire nel nulla fu torturato nelle celle del Distaccamento delle operazioni per l’informazione del Centro operativo della difesa interna (Doi-Codi).

Il 24 aprile di 41 anni dopo, la procura federale di San Paolo ha incriminato il colonnello in pensione Carlos Alberto Brilhante Ustra, che dirigeva il Doi-Codi, e il vicecapo di polizia Dirceu Gravina (meglio e tristemente noto col soprannome con cui amava o pretendeva farsi chiamare: Gesù Cristo) per sequestro di persona. 

I procuratori che seguono il caso hanno utilizzato due precedenti sentenze della Corte suprema federale del 2009 e del 2011 che, senza mettere in discussione la Legge d’amnistia (come ricordato sopra, a proposito della sentenza del 2010), avevano stabilito che questa non valeva per i reati di sequestro di persona o sparizione. Così come in Argentina, i magistrati hanno fatto leva sull’elemento della continuità del tempo del reato: data l’assenza della vittima, il sequestro di persona commesso nel 1979 prosegue mentre sono in corso le indagini.

I giudici federali dovranno presto pronunciarsi su una seconda indagine, quella aperta sempre quest’anno a marzo nei confronti del colonnello Sebastiao Curió Rodriguez de Moura, per il sequestro e le torture commesse contro cinque membri del movimento di guerriglia Araguaia, avvenute nello stato di Pará nel 1974.



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