lunedì 16 gennaio 2017 - clemente sparaco

Corsi e ricorsi post-storici

La lezione di Vico

Secondo il filosofo napoletano Giambattista Vico, la storia non segue un percorso lineare, progressivo, ma alterna corsi e ricorsi, evoluzioni ed involuzioni, ascese e cadute. “Natura di cose – scrive nella Scienza nuova – altro non è che nascimento di esse in certi tempi e con certe guise, le quali sempre che sono tali, indi tali e non altre nascon le cose”. Le creazioni umane hanno necessariamente una natura storica, circostanziata da tempi e modalità determinate. A uguali dinamiche storiche corrispondono il ripetersi di eventi e vicende simili, come se l’umanità tornasse a ripercorrere strade già battute, come se, dibattendosi nei suoi limiti creaturali, finisse per incorrere negli stessi errori.

Il corso delle nazioni è assimilabile al ciclo della vita, circoscritto in una temporalità biologica che, come conosce un inizio, così conosce una maturazione e una fine. Nulla è acquisito una volta per tutte. E’ sempre possibile ricadere nella barbarie, azzerando, per così dire, il cammino fatto, perché la storia “non è una galoppata senza possibilità di ristagni e di involuzioni; né la ragione è una forza destinata al trionfo” (Giovanni Reale).

In particolare, il ricorso si verifica quando una civiltà, che ha conosciuto la piena maturità, si isterilisce in sofisticate astruserie, pervertendo la sapienza nell’inutile e vano esercizio di solitari dotti, quando, perduta la memoria del passato, le energie vive che si collegano all’infanzia dello spirito, si esauriscono. Prevalendo la presunzione di progettare la storia a misura puramente umana, s’inverte allora il corso che indirizza alla verità, alla giustizia, al rispetto della sacralità della vita e il bene comune viene sostituito dal capriccio individuale. 

La caduta dell’Impero romano

Nel teorizzare la legge dei corsi e ricorsi storici Vico ha in mente la caduta dell’Impero romano, laddove una civiltà che aveva coperto tutte le tappe dello sviluppo, giungendo alla piena maturazione, finì rovinosamente. E proprio la pubblicazione di un libro del giornalista Michel De Jaeghere sull’argomento (Gli ultimi giorni. La fine dell'Impero romano d'Occidente, Les Belles Lettres, Parigi 2014) ha suscitato di recente in Francia un ampio dibattito con risvolti anche politici. 

L’autore individuava la causa principale della caduta dell’Impero nella denatalità. In effetti, nel Vo secolo la popolazione di Roma subì un vero e proprio tracollo (arrivò a contare poche decine di migliaia di abitanti, mentre nel periodo d’oro ne contava un milione!). Né andò meglio nelle campagne, dove molti villaggi furono addirittura abbandonati. Tale fenomeno ebbe conseguenze dirette sull’economia. La produzione agricola si ridusse drasticamente; il commercio ristagnò, l’artigianato decadde.

La denatalità innescò, quindi, una spirale diabolica di tasse insostenibili, statalismo economico, immigrazione non governata ed eserciti imbelli. Nelle campagne, in particolare, i piccoli proprietari, non potendo più pagare, finirono per ingrossare le fila della criminalità. Gli introiti fiscali, alla fine, anziché aumentare, diminuirono vertiginosamente (nell’ultimo secolo quasi 90% in meno!). Contestualmente, procedette il decadere dei presupposti culturali e morali della romanità, quella lealtà di fronte alle tradizioni e quella fedeltà agli impegni assunti nei confronti della patria, che l’avevano resa grande.

 Per far fronte alla denatalità si confidò, in un primo tempo, negli schiavi, cui fu fatto divieto di praticare l'aborto e che furono obbligati a fare più figli. Ma questa misura si rivelò insufficiente sia a sanare il dissesto finanziario, perché gli schiavi non pagavano le tasse, sia a risollevare l’economia, perché lavoravano in modo poco zelante e, quindi, erano poco produttivi. Per ripopolare i territori si ricorse allora all’immigrazione. Interi popoli barbari furono convogliati all’interno dei confini. Si decise anche di reclutare gli immigrati per l'esercito, concedendo loro nel contempo la cittadinanza.

Così, all'inizio del Vo secolo, l'esercito romano (che contava quasi mezzo milione di uomini) era per metà formato da immigrati di origine germanica. Per un certo periodo ancora i comandanti restarono romani, ma quando i barbari presero coscienza di essere la maggioranza, uccisero i generali romani e li sostituirono con uomini loro.

Alla fine, le legioni barbarizzate, anziché respingere gli invasori etnicamente affini, si unirono a loro e marciarono su Roma, ponendo fine all'Impero.

 

Il mondo post-guerra fredda: il Medioevo che ritorna

Quando nel 1989, in modo sorprendente e improvviso, cadde il muro di Berlino e il sistema internazionale caratteristico della Guerra fredda si sgretolò, ci si illuse che si sarebbe estinta anche la conflittualità a livello globale.

In Occidente, in particolare, si diede per scontato che la democrazia liberale avesse definitivamente trionfato e che di lì a poco quel modello si sarebbe diffuso per tutto il mondo. E’ in questo clima che Francis Fukuyama ebbe a scrivere: “E’ possibile che siamo giunti [...] alla fine della storia in quanto tale; vale a dire al capolinea dell'evoluzione ideologica dell'umanità e all''universalizzazione della democrazia liberale occidentale quale forma ultima di governo dell'umanità” (The End of History). Alcuni allora introdussero il termine suggestivo di post-storia ad indicare che si erano ormai estinte le contrapposizioni ideologiche che avevano caratterizzato la storia moderna.

Ma la profezia di Fukuyama è stata drammaticamente smentita nei fatti. Una spirale tragica di guerre, di odio, di rivalse e di contrasti insanabili ha impresso agli avvenimenti un’accelerazione imprevista, configurando quello che Zygmunt Bauman ha definito “nuovo disordine mondiale”.

Su questa nuova conflittualità pesano motivi non solo economici, ma anche culturali e religiosi. Essi si innestano laddove, insieme all’internazionalizzazione della produzione e dei capitali, insieme alla diffusione della rivoluzione informatica, procede la diffusione di una stessa cultura di massa. Ora, proprio nel punto di impatto della globalizzazione culturale, quando il fenomeno economico e tecnologico vorrebbe, per così dire, investire la sfera delle convinzioni e dei costumi, ecco che insorgono resistenze all’omologazione. Si realizza, pertanto, il fatto apparentemente paradossale di una modernizzazione che rigenera per reazione le culture tradizionali, i localismi e, in un senso più profondo, le identità dei popoli.

Ed è qui che gli illuministi sono stati smentiti dai fatti.

Bisogna considerare, infatti, che ancora negli anni ‘70 le élite intellettuali occidentali erano convinte che la modernizzazione avrebbe portato alla scomparsa della religione quale elemento significativo dell'esistenza umana. Del resto la modernità era stata accompagnata dalla laicizzazione della società, prima, e dalla secolarizzazione poi. La scienza, il razionalismo e il pragmatismo avrebbero spazzato via le superstizioni e i rituali religiosi.

Ciò che è avvenuto ha dimostrato l'infondatezza di quelle analisi. Nel mondo post-guerra fredda le principali distinzioni non sono, infatti, di carattere ideologico, politico o economico, ma di civiltà. Le civiltà, le identità culturali, si sono dimostrate qualcosa di più radicato e sedimentato delle differenze economiche o ideologiche. Fattori come l’etnia, i valori morali e spirituali, la religione, determinano, di fatto, le dinamiche della politica mondiale.

Lo scenario mondiale che si profila appare variegato e complesso, ma, per certi versi maggiormente simile a quello dell'epoca medievale (come ha sottolineato Huntington nel suo libro Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale). La religione ritorna con i suoi simboli e con i suoi riti a determinare il corso storico. Croci, mezzelune e persino copricapo tornano a contare più di ogni altra cosa. Si dimostrano capaci di motivare e mobilitare masse. Suscitano sentimenti profondi e reazioni radicali. La religione va, pertanto, a cercarsi uno spazio ben al di là del risicato ambito della coscienza individuale che il laicismo era disposto a riconoscerle. Riempie il vuoto lasciato libero dalle ideologie, come è apparso evidente già nei Paesi dell’Est europeo, dopo la fine del comunismo.

Lo scontro fra identità religiose diverse alimenta la lotta politica sempre più spesso, in luogo di quello che, nell’epoca della divisione del mondo in blocchi contrapposti, era lo scontro ideologico.

 

La sfida dell'Islam

La rinascita religiosa appare particolarmente forte nel mondo islamico, manifestando il disagio delle aree urbane, più che delle rurali, dei giovani, piuttosto che degli anziani, incarnando speranze di elevazione e riscatto ed esprimendo un sentimento di rivalsa e ribellione contro l’Occidente.

Lo slogan degli islamisti è semplice e diretto: «la soluzione è l'Islam!». Ciò vuole significare, di fronte alla complessità e molteplicità del mondo attuale, un richiamo alla religione quale fonte unica di orientamento, stabilità e legittimità. Rivela al contempo un rapporto conflittuale con la modernità. Accettarla comporta, infatti, assumere un sistema di valori sociali e di produzione economica d'impronta agnostica (se non atea), che appare in contrasto palese con l’Islam. C’è, quindi, accettazione della modernità per gli aspetti legati allo sviluppo tecnologico (televisione, internet, network etc.), avvertiti a torto come asettici sul piano valoriale, ma rifiuto per quelli che sono ritenuti elementi corruttori, intossicatori (ideologie, istituzioni e valori).

Contro l’Occidente sussistono diversi motivi di scontro. Molti di questi sono caratteristici dell’era globale, come quelli relativi alla proliferazione delle armi, ai diritti umani, alla democrazia, alle migrazioni, all’imperialismo economico occidentale. Altri riguardano la strutturazione politica post-coloniale del Medio Oriente e, in particolare, la questione palestinese. Altri, più radicati e profondi, sono riconducibili allo scontro tra valori laici occidentali e valori religiosi islamici. L’Occidente è, agli occhi degli islamisti, «l'Occidente ateo», un mondo non solo materialista e decadente, ma anche arrogante, militarista, colonialista, che, da un lato, incute terrore per la sua potenza militare, dall’altro, seduce e minaccia con il suo individualismo ed edonismo.

Tuttavia vi sono motivi più antichi che ritornano. Il rifiuto dell’Occidente da parte islamica sottintende, infatti, il rifiuto di una civiltà che si rifà al Cristianesimo venendo a rappresentare l'ultimo stadio di un processo di definizione dei rapporti tra Islam e Occidente, antico almeno quanto l’Islam.

Così, l’Europa, investita da un’immigrazione massiccia proveniente soprattutto dal mondo islamico, si trova a far fronte ad una sfida ben più difficile di quella che si trovò ad affrontare alla caduta dell’Impero romano. Scrive a tal proposito Massimo Introvigne recensendo il libro di De Jaeghere: “Gli immigrati e gli invasori di Roma avevano un vantaggio rispetto a immigrati e ‘invasori’ di oggi. In gran parte germanici, non erano portatori di una cultura forte. Riconoscevano la superiorità della cultura romana: cercarono di appropriarsene e finirono anche per convertirsi al cristianesimo. (…) Oggi gli immigrati e gli ‘invasori’ (…) sono portatori di un pensiero fortissimo, sia quello islamico o quello cinese: non pensano di dovere assimilare la nostra cultura ma vogliono convincerci della superiorità della loro” (Denatalità, tasse, immigrazione. Ecco perché finiremo come l'Impero Romano, La nuova bussola quotidiana del 23-02-2015).

 

La sfida dei tempi 

In un libro intervista del 2003 (Fede, verità e tolleranza) J. Ratzinger ha proposto riflessioni che sembrano richiamare la teoria dei Corsi e ricorsi storici di Vico e che ne illuminano, per così dire, l’ispirazione profondamente teologica: “…nell'ambito di questa nostra storia umana non esisterà mai la situazione assolutamente ideale, e non si erigerà mai un ordine di libertà definitivo. L'essere umano è sempre in cammino e sempre limitato. (…) Noi possiamo erigere sempre solo ordinamenti relativi, essi possono sempre avere ragione ed essere giusti solo relativamente”.

Le ideologie non sono stato altro che tentativi di definire la storia a misura dell’umano. L’uomo, comunque limitato, se non altro perché i suoi orizzonti sono storici e, quindi, contestuali e finiti, pretende con l’ideologia di presentare i suoi progetti come definitivi ed ultimativi. Nulla lo trascende. Gli sviluppi della storia sono esauribili in senso lineare. Il futuro è ipotecabile. Emblematico, a tal proposito, è questo slogan di Trockij: «Noi raggiungeremo ogni cosa! Noi domineremo ogni cosa! Noi ricostruiremo ogni cosa!» (Letteratura, arte e libertà).

Non è così. La crisi delle ideologie ha evidenziato la fine di questa pretesa. La storia non procede necessariamente verso il meglio. L’equazione cambiamento = miglioramento non è valida. “Nella storia – afferma ancora Ratzinger - ci sarà sempre un progredire e un retrocedere. In rapporto alla autentica natura morale dell'uomo, la storia non si svolge linearmente, ma con ripetizioni. Nostro compito è lottare di volta in volta nel presente per quella strutturazione relativamente migliore della convivenza umana e custodire il bene così raggiunto, vincere il negativo esistente e difenderci dall'invasione delle potenze della distruzione”. 



1 réactions


  • pv21 (---.---.---.24) 17 gennaio 2017 19:47

    PS >

    Il Debito pubblico cresciuto di almeno 150 miliardi (con relativi interessi da pagare) e la richiesta della UE di correggere il disavanzo, sono dei capitoli che M RENZI neppure sfiora nel suo “mea culpa”.

    E’ una zavorra (da oltre 6 miliardi) destinata a “limare” i necessari ulteriori interventi anti crisi e di sostegno sociale.

    Come tale concorrerà a dare maggior fiato ai moti di disaffezione, di protesta e di “alternativa” grillina e/o salviniana.


    Quello “progettato” da M RENZI sarà sempre un partito di tipo carismatico.

    Con buona pace del già “rottamato” PD.

    Da magistrale comunicatore conta sul Consenso Surrogato di chi è sensibile alla fascinazione ...


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