giovedì 17 marzo 2011 - Sergio Giacalone

17 Marzo, tempo variabile

Il 17 marzo. E i miei stati d’animo rispetto a questa data e alla commemorazione che si è strenuamente voluta sono mutevoli com’è tipico delle condizioni atmosferiche in questo terzo mese dell’anno: variabile, così è il mio tempo sentimentale al cospetto delle celebrazioni del “150° Anniversario della Proclamazione del Regno d’Italia”, più comodamente definito “dell’Unità Nazionale.

Non posso certamente nascondere il fatto che la riscoperta, dopo 65 anni, di una Festa che era la più importante quando l’Italia era un Regno mi provoca un piacere sottile. Non foss’altro che per questo suo apparirmi una sorta di piccolo riscatto, un velato, timido riconoscimento da parte delle nostre istituzioni di errori perpetrati in tutti gli anni repubblicani di questo Paese, con la scientifica rimozione di tutto quello che poteva legare l’Italia al suo passato monarchico e la conseguente recisione, lenta ma inesorabile, del vitale legame con la nostra storia migliore. L’atteggiamento di malcelata indifferenza del popolo italiano rispetto alla comune appartenenza nazionale e a quello sconveniente sentimento che è l’amor di Patria non è che la fisiologica conseguenza di questa che per 65 anni è stata una consolidata attitudine.

Un mese fa, a Sanremo, alla stessa immensa platea televisiva a cui qualcuno aveva parlato dei 150 anni della repubblica (sic!) Roberto Benigni fece un mirabile excursus del nostro Risorgimento, come da lui non mi sarei aspettato e come non ne avevo mai sentiti prima da un uomo di sinistra. Non fu la solita commemorazione mutilata per comodo, non si cadde nell’errore di parlare delle radici della nostra storia senza specificare che a dirigere l’unificazione d’Italia c’era stato un Re della - cito Benigni - Casa reale più antica d’Europa: in quel racconto, pieno di sentimento, il nostro paese era dipinto come prezioso frutto di una pianta nutrita dalla passione e dal sangue dei soldati, ma anche dall’astuzia dei generali; dall’intelligenza e dal coraggio degli eroi e dei patrioti, ma anche dall’audacia e dalla determinazione di un Re e del suo Primo Ministro. Garibaldi, insomma, non fu, per una volta, il solo a fare l’Italia!

Sono certo, perché facebook me ne ha dato conferma, che quella sera la maggioranza dei miei connazionali sintonizzati su Rai 1, ha rialzato la testa dalla melma in cui siamo ultimamente sprofondati e si è sentita orgogliosa di appartenere ad un popolo con una storia così straordinaria; e mi rende felice il fatto che abbia contribuito a quest’orgoglio anche il ricordo di Vittorio Emanuele II di Savoia, primo Re d’Italia.

Purtroppo, però, l’episodio di Benigni non rappresenta che una goccia nell’oceano… Per il resto questa commemorazione è stata vissuta e preparata con la stessa vecchia attitudine selettiva di cui l’Italia repubblicana si è sempre nutrita, con quella voluta confusione che può far giungere un italiano di media cultura ad affermare, appunto, i 150 anni della repubblica….

Per me, siciliano, che ho discusso una tesi in Storia del Risorgimento, che mi sforzo di giudicare le istituzioni prescindendo dal giudizio sugli uomini che le hanno rappresentate ma basandomi sulla loro convenienza storica, tutto questo è fonte di amarezza, profonda al punto da doppiare l’accennato piacere sottile procuratomi dal recupero di quella che un tempo era la Festa dello Statuto.

Il 17 marzo si presentava alla repubblica italiana come una ghiotta occasione per riconciliarsi con il suo passato: le spinte secessioniste, divenute incontenibili, l’indifferenza popolare ai temi della politica, l’inabissamento dei toni della stessa politica, della morale pubblica e privata e della dignità nazionale a livelli ed ambientazioni simili a quelli delle note fogne di Calcutta, sono stati con ogni probabilità la molla che ha fatto scattare il piano d’emergenza. In uno sprazzo di lucidità le istituzioni repubblicane hanno compreso che per legittimarsi e radicarsi la repubblica aveva in tutti questi anni commesso l’errore più grave che si possa commettere quando si è al cospetto di una nazione complessa com’è la nostra: la cancellazione della storia patria.

Per 65 anni la repubblica italiana ha cercato di convincerci che poteva tranquillamente nutrirsi di se stessa e della sua carta costituzionale; per necessità autoreferenziale si è inventata la festa del 2 giugno, una data che non ricorda nulla, perché in Italia nessuna repubblica è mai stata proclamata il 2 giugno di un qualsivoglia anno (né in qualsiasi altra data, a voler essere pignoli..!). Ci ha raccontato, la repubblica, che quello che c’era prima di lei era tutto un marciume, perché c’era il fascismo e se tenevamo per il Re eravamo fascisti pure noi. E noi ci abbiamo creduto..! Ma si può conquistare il favore di un popolo intelligente con l’inganno? Si può ottenere, su tali basi, un coinvolgimento popolare che sia sentimentale oltre che di prassi formale? No, non si può. Per un po’ la congiuntura economica favorevole, frutto della ricostruzione post-bellica finanziata dagli Stati Uniti, nostro nuovo padrone, obnubilò le nostre menti, dandoci l’illusione di una compiuta rinascita democratica. Ma presto i partiti politici si mostrarono nella loro vera essenza: mostri voraci di tutte le nostre risorse. Fu il capolinea della cosiddetta prima repubblica.

La seconda è sotto gli occhi di tutti con le sue nefandezze; ma non è scevra da una lucidità che è forse lo stesso spirito di sopravvivenza a generare. Ecco come si arriva al recupero di una storia, forse scomoda, ma senza dubbio utile a farci ritrovare interesse alla nostra appartenenza e a darci un motivo per rimanere uniti. Ciampi è stato il primo a capirlo. E lasciò che il figlio (ahimé indegno) dell’ultimo Re d’Italia mettesse piede al Quirinale dopo 56 anni. 

Su quella scia qualcuno deve aver pensato che quest’anno cadevano i 150 anni dalla proclamazione del Regno d’Italia e che un tale evento meritava di essere sfruttato al meglio. Scelta sacrosanta.

Ma interviene subito un primo colpo di scena a raffreddare gli entusiasmi: la festa è una tantum; come per dire “quest’anno non ne potevamo fare a meno, ma non vi ci abituate…”. E poi “il vero festeggiamento si farà il 2 giugno”… Il 2 giugno? Citando un comico di Zelig, alzi la mano chi festeggia il compleanno tre mesi dopo la propria data di nascita…! E per giunta in un giorno che, per mera consuetudine (non certo per l’inesistente valore commemorativo), ricorda la negazione di ciò che si intende festeggiare.

Per non parlare (perché non lo meritano) degli esponenti della Lega nord e delle loro uscite prive di ogni stile e realismo.

Visto che, comunque, cosa fatta capo ha, ti aspetti che la regia di quest’evento tanto atteso sia tanto puntuale da dare ad ogni cosa il proprio nome e ad ogni pezzo il posto che gli compete! A rigor di logica, dunque, ti immagini una commemorazione con i simboli e i protagonisti originali degli eventi che si pretende si ricordare. Ma dov’è lo scudo sabaudo che ha motivato le gesta degli eroi risorgimentali? Dove sono i Savoia? Tolti di mezzo gli eredi diretti di Re Umberto II che si sono auto-estromessi riconoscendosi portati ad altre amene attività, Casa Savoia oggi vive in tutta la sua grandezza storica di Casa Reale più antica d’Europa nella dignitosa persona del Duca Amedeo d’Aosta, di suo figlio Ajmone e del piccolo Umberto, con il quale un Savoia è tornato a portare l’evocativo titolo di Principe di Piemonte, che era degli eredi al trono d’Italia. Non sarebbe forse stato corretto che le istituzioni repubblicane, che si arrogano il diritto di celebrare un anniversario che non è il loro, tendessero la mano a questi Savoia, testimoni viventi del ruolo di guida che, piaccia o no, la loro Casa ebbe nella formazione della nostra unità nazionale? Invece nulla. La banda bianca dei tricolori ostentati nelle piazze piuttosto che sui risvolti delle giacche rimane rigorosamente candida, mentre nessun componente dell’ex Casa Reale risulta coinvolto in cerimonie ufficiali. Ancora una volta un’incompiuta, ancora una volta l’Italia si dimostra una repubblica fondata sull’inadeguatezza, sul pressapochismo, sulla paura di un passato che ha sepolto quando era ancora vivo.

Passo da variabile a molto nuvoloso.



3 réactions


  • vittorio Cucinelli (---.---.---.110) 18 marzo 2011 00:09

    scusami ma davvero trovo imbarazzante la tua tesi difensiva ai Savoia, come meridionale poi ancora peggio. I Savoia non esitarono a invadere uno stato sovrano ( il regno delle due sicilie) senza dichiarazione di guerra ( hai mai pensato se all’epoca dei fatti ci fosse stato l’ONU?) con la copertura alle spalle delle due maggiori potenze europee (Francia e Inghilterra), ma lesti e vili a tagliare la corda nel momento topico. Non capisco per quale motivo avremmo dovuto commemorare anche i Savoia..no per favore, sarebbe stata davvero una beffa insopportabile


    • (---.---.---.70) 20 marzo 2011 04:36

      Gentile Cucinelli,
      credo che il problema di fondo non siano i Savoia ma il nostro reciproco punto di vista sul Risorgimento, che è diametralmente opposto, Evidentemente tu non condividi il processo risorgimentale nella sua essenza, lo consideri (e non sei il solo in verità) una manovra di potere, gestita dai vertici degli stati al solo fine di permettere l’allargamento dei confini del Regno di Sardegna. In quest’ottica, che io rispetto, l’avanzata delle truppe garibaldine a sud appare senza dubbio un’aggressione ad uno stato sovrano; dal mio punto di vista, invece, la spedizione dei Mille fu un mezzo attraverso il quale si poteva ottenere la naturale riunione di una nazione, indiscutibilmente UNA, divisa da confini artificiali e dinastie imposte dal Congresso di Vienna, in quel caso sì sulla base di criteri che si fondavano su equilibri di potere e prescindevano assolutamente da valutazioni di tipo nazionale. Quella Nazione , per ben tre volte, nel 1821, nel ’31 e nel ’48, aveva fatto sentire il suo bisogno di ritrovarsi: ed erano moti di popolo quelli. E i Cattaneo, i Gioberti, i Mazzini, i Pellico, non erano certo dei guerrafondai a servizio dei Savoia o delle potenze straniere: erano piuttosto gli interpreti di un sentimento diffuso nei vari popoli d’Italia, i quali non possono quindi essere cosiderati semplici spettatori passivi del processo unitario, ma attori, se non principali, comprimari. Non aggressione dunque, ma implosione di strutture statali minate dall’interno. 
      Detto questo, caro Cucinelli, non credere che piangerei se tornassero i Borboni! Io credo innanzitutto nella assoluta validità dell’istituto monarchico e nella sua superiorità rispetto alla forma repubblicana, al di là della dinastia che lo rappresenta. 
      Credo, però anche, che l’unificazione nazionale italiana sia stata un atto eroico e necessario. Da questo punto di vista non si può in coscienza negare che la Casa di Savoia costitusca la prima firmataria dell’atto di nascita della nostra storia "nazionale" e la sua prima vera rappresentanza nello scenario politico internazionale. Con tali presupposti, una volta deciso che dovevano festeggiarsi i 150 anni della nostra Unità, i Savoia ci dovevano essere. E come avrà visto, a prescindere dalle mie fosche previsioni, a Vittorio Emanuele II la repubblica ha reso un omaggio francamente inaspettato; e avrà anche notato che in quella commemorazione al Pantheon i Savoia c’erano, i degni e persino gli indegni!Dobbiamo perciò concludere, Vittorio, che ci siamo sbagliati entrambi! 
      Grazie per avermi letto.


  • Pio Pierucci (---.---.---.232) 26 marzo 2011 03:29

    Grazie per l’eccellente disamina del Centocinquantenario. Potesse essa venir recapitata ad ogni domicilio indurrebbe, forse, gli Italiani (almeno quelli rimasti dopo 65 anni di micidiale repubblica) ad una riflessione sulla loro nefasta acquiescenza con il repubblicanesimo.


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