martedì 3 novembre 2009 - mitraglia

Proposta di un’utopia? Guardare oltre il capitalismo...

 

Oggi che il mondo vive una crisi pazzesca, provo a proporre un’utopia, non tanto per uscirne, perché non serve svegliarsi da un incubo se poi tanto si ritorna a dormire.

E’ il modo di concepire l’economia che deve cambiare.

Il capitalismo così com’è va rivisto.

Nessuno, con un po’ di buon senso, può pensare che, passata la tempesta, tutto possa tornare come prima, come se nulla fosse successo.

Né l’Italia può mettersi, come sta facendo, in attesa passiva, che riprenda a correre la domanda mondiale grazie al ritorno positivo del P.I.L. degli U.S.A..
Per potersi agganciare al treno che passa.

Bisogna cambiare, partendo da quello che c’è e cercare nuove prospettive.
E’ evidente che a nessuno piacerebbe improvvisamente trovarsi a vivere in una condizione di disagio o addirittura di miseria. Il problema è, più semplicemente, ridurre gli sprechi. Le abitudini potrebbero essere modificate. Ad esempio, è noto che guidare un auto ad alta velocità significa consumare molta più benzina sostenendo maggiore spesa, generando inquinamento e provocando un più elevato numero di incidenti. Guidare a moderata velocità implica un minor consumo di benzina che può contribuire a contrarre il livello di produzione e occupazione del settore della raffinazione. Allora la soluzione non sta solo nello sprecare meno risorse e beni che producono emissioni e rifiuti, ma anche convertire i lavoratori di quei settori la cui produzione e produttività andrebbe diminuita, in lavoratori addetti ad attività non inquinanti e che consentono di mantenere inalterata (o quasi) la ricchezza globalmente prodotta, seppur composta da beni e servizi diversi.

Peraltro, siccome del benessere di una società è parametro importante anche il tempo libero, sarebbe ora di cominciare a pensare a ridurre l’orario di lavoro non solo dei dipendenti, ma anche di quelli che lavorano in proprio. A che vale guadagnare tanti soldi se non si ha il tempo per spenderli? La scienza ha già approntato strumenti in grado, da qui al 2030, di ridurre il tasso d’inquinamento globale del pianeta Terra. Produrre cibi a chilometri zero è un altro piccolo tassello utile al cambiamento. Ma fondamentale è rideterminare le abitudini dei consumatori. E tuttavia tutti gli strumenti elencati vanno armonizzati in una teoria politica ed economica che, grazie allo strumento del diritto, possa produrre quegli effetti nel sistema economico che concilino benessere e tutela dell’ambiente, inteso in senso lato.

Il compito è impegnativo, ed anzi improbo, perché occorre coordinare una sorta di rigenerazione dell’homo economicus, - un homo novus, completamente spogliato di comportamenti sedimentati da secoli, tanto da sembrare istintivi- e scelte economiche e sociali che vengono dall’alto, cioè dagli stati in collaborazione tra di loro in maniera aperta e leale. La scuola e le altre agenzie educative, - a partire anzitutto dalla famiglia, - con l’insegnamento e con l’esempio, possono diffondere un nuovo modello di riferimento comportamentale che sia innervato di (nuovi) valori relazionali e pubblici, basilari per la tutela dell’ambiente e delle specie viventi. Insegnare il rispetto per la natura, per le persone, per gli arredi urbani, per gli animali risponde ad esigenze che ognuno di noi può fondare su principi etici religiosi o laici, ma che rispondono ad una stringente necessità che non possiamo non soddisfare. Corsi di educazione ambientale andrebbero attivati a partire dalle scuole elementari. E la chiesa cattolica potrebbe dare il suo contributo attivandoli insieme ai corsi di catechismo per bambini e prematrimoniali per giovani coppie di nubendi.

Lo Stato, con le sue leggi, dovrebbe agevolare il diffondersi di una coscienza ecologica, sia favorendo comportamenti virtuosi, sia punendo severamente i trasgressori. Sotto il profilo dell’organizzazione produttiva, severe leggi, ed un controllo ancor più serrato, dovrebbero favorire (e anzi consentire di esistere solo a) le imprese che non inquinano, che non sfruttano, che risparmiano ed in particolare dovrebbero incentivare la nascita di imprese cooperative senza alcuno scopo di lucro che, da un lato garantirebbero il vantaggio mutualistico ai soci e, dall’altro, aprirebbero la prospettiva di nuove possibilità occupazionali funzionali ad una società che tutela ambiente e benessere individuale e sociale. Ma perché tutto funzioni, oltre che un’integrazione verticale Stato-società, è necessaria un’integrazione orizzontale tra gli stati, che dovrebbero lavorare insieme con uno spirito rinnovato di mutuo soccorso e collaborazione. Non più un solo stato che si sente il gendarme della Terra e guerreggia contro presunti nemici solo per poter consumare i beni che produce e tener alto il P.I.L. e più ancora i profitti dei veri poteri (occulti?), anche a costo di portare miseria, morte e distruzione, ma una aperta collaborazione nell’interesse di tutti.

Tutti gli esseri umani hanno diritto ad una vita dignitosa, alla pace, alla sicurezza, al cibo, all’acqua, alla salute, ai diritti umani, alla cultura. E non si vede perché i responsabili dei diversi stati non possano trovare su questi semplici diritti dei punti d’intesa. Organizzazioni internazionali come la U.E. o l’O.N.U. che esistono a fare altrimenti? Solo a mantenere una ben pagata burocrazia? Un dubbio però è ragionevole manifestarlo. Come si realizza questa specie di miracolo universale? Perché, a ben vedere, non in tutti i paesi della Terra esiste la democrazia, la tutela dei diritti umani. Non in tutti i paesi è buono il livello culturale che, ad esempio, è fondamentale per il controllo demografico, che spesso, per altro, non è condiviso come condicio sine qua non per un’economia sostenibile. E allora come può essere che tutti i paesi della Terra collaborino tra loro per la salute del pianeta e con i loro popoli per ottenere questo risultato? Non c’è il rischio che un piano siffatto assomigli molto ad una nuova colonizzazione dei paesi ricchi rispetto a quelli più poveri? O una nuova forma di imperialismo? E che l’urgenza di questa prospettiva sembri – ammesso che i paesi occidentali decidano di perseguirla – un’altra forma di dominio occidentale? Ha scritto il grande economista indiano Amartya Sen che i non occidentali tendono a definire la propria identità prevalentemente in termini di diversità dagli occidentali e che la dialettica colonizzata rende più difficile la vita degli individui in Asia e in Africa e può condizionare gravemente la vita e la libertà di individui ossessionati, per reazione dall’Occidente. Ed è allora a questo rischio che bisogna stare attenti, al rischio, cioè di far passare quella che è un’esigenza di tutti, come un bisogno di pochi. Il problema è il consenso, ma non solo delle popolazioni, ma dei governi, che non esproprino autoritativamente le popolazioni dal diritto di dire la loro, ma che con esse collaborino, anche con l’autorità che gli è propria.

Vero è che se esistono dei popoli che hanno forte il senso della comunità, e dunque di un legame inossidabile che li porta, dopo discussioni democratiche, a prendere decisioni unitarie, ce ne sono altri, però, in cui alligna un anarchismo istintivo che proprio non riesce a essere estirpato e per il quale più che alla comunità e alle sue esigenze, si fa riferimento alla “famiglia” e alle sue pretese. L’Italia, per tradizione, è uno di questi. Tant’è che pur essendo il sesto Paese al mondo per consumo di energia, specialmente di origine fossile, non è stata ancora in grado, per ritardi e mancanza di volontà dei politici, per interessi spesso inconfessabili, di approntare un sensato piano integrato che conduca il Paese verso il consumo di energie alternative e lo renda autonomo da un’inaccettabile sudditanza energetica da Paesi dai quali è meglio non dipendere. In Italia le priorità sono sempre altre e i fiumi di danaro scorrono per gli interessi economici di pochi poteri forti che si dividono la torta, mentre sui più, spesso completamente disinformati, continua a cadere la massa dei rifiuti e delle emissioni che peggiora la qualità della vita e accelera il collasso del Pianeta. E allora ogni passo verso un cambiamento radicale deve avvenire non solo dal basso, cioè da una nuova coscienza civica delle persone, ma anche dall’alto, da una classe politica corretta ed interessata al bene dei cittadini che rappresenta. Tutto questo all’interno di una collaborazione aperta tra gli stati, in cui, nel rispetto dei diritti di tutti, ciascuno stato agisca per il bene dei propri cittadini, in una logica di razionalità nella produzione e nel consumo, fuori da ogni logica di spreco e di smisurata accumulazione di ricchezza. Solo una opportuna redistribuzione delle ricchezze del Pianeta, a garanzia del benessere di tutti, può portare ad un sereno equilibrio universale di un’umanità finalmente pacificata con se stessa e con la natura.



1 réactions


  • ciopax (---.---.---.10) 3 novembre 2009 12:21

    Sig. Mitraglia, mi trovo perfettamente in sintonia con l’enunciato del suo articolo, ma purtroppo si sta facendo di tutto per ripristinare (e ciò è ancor più utopistico) ciò che era prima della crisi. Continuare quindi a sottopagare i beni importati arrivando a pagare meno di ciò che effettivamente costa il prodotto: questa è la logica del capitalismo selvaggio attuale, quel capitalismo che è riuscito ad attecchire in Cina e che ridurrà in polvere la grande muraglia con gli elevatissimi consumi energetici che provocano un inquinamento insostenibile. Il dramma è che la caduta del muro di Berlino ha mostrato di che pasta sia fatto il nostro sistema economico quando gli avversari svaniscono: la legge principale è solo quella del più forte, una forza che però adesso si sta spostando geograficamente facendo arricchire di più, sempre meno persone, a scapito dei "comuni mortali" che devono fare i conti con la fine del mese. Mi trovo perfettamente d’accordo sul fatto che la qualità della vita sia direttamente proporzionale al tempo libero a nostra disposizione, infatti da oltre quarant’anni, pur avendo in media sestuplicato la nostra produttività, percepiamo simulazioni di stipendio inferiori proporzionalmente al passato, continuiamo a fare gli orari che ci consentivano di produrre un sesto del prodotto attuale: 40 ore settimanali come minimo. Sestuplicando la produttività abbiamo saturato i mercati, così sono venute fuori nuove figure: gli inventori di bisogni (vedi I-Phone). Purtroppo una cosa che accomuna i soggetti più deboli è la potenziale guerra tra poveri e chi è al potere lo sa bene, visto che presto toccheremo i 7 miliardi di persone sul pianeta. La televisione ha annichilito tutti visto che, sicuramente, una situazione come quella attuale trenta anni fa avrebbe generato una vera e propria rivoluzione. Orwell aveva visto giusto.


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