venerdì 4 dicembre 2009 - Doriana Goracci

Con Marisela Ortiz Rivera e il nostro ritorno a casa

Le hanno ucciso il compagno della figlia Nakar, si erano da poco sposati. Sabato 28 novembre, Alfredo Santos Portillo, attivista e studente presso l’Università Autonoma di Ciudad de Juárez nell’Istituto di Graphic Design, è stato ucciso da due uomini: gli hanno sparato mentre comprava una coperta in un negozio. Morto sul colpo. Aveva 27 anni. Il fatto in sé non è straordinario, siamo abituati alla morte su commissione, anche in Italia.
 
Straordinaria è questa donna, portavoce e  fondatrice di Nuestras Hijas de Regreso a Casa. Marisela Ortiz Rivera, insieme con i difensori Norma Andrade e María Luisa García Andrade avevano ricevuto messaggi che minacciavano l’uccisione dei loro figli. Il professore universitario Galvan Manuel Arroyo è stato ucciso lo scorso 29 maggio. Il 19 novembre era stata rapita, e successivamente liberata, l’attivista Orrantia Alicia, 55 anni, nella sua casa presso la città di Nuevo Casas Grandes Salaiz nella quale l’8 ottobre le avevavo ucciso il marito e, un anno fa, il figlio.

Il 9 dicembre 2008, Marisela Ortiz è diventata cittadina onoraria di Torino, donna messicana che da anni lotta nella sua terra contro l’omertà sugli assassini di Ciudad de Juarez, città divenuta delle “sparizioni, con un crescendo impressionante, di giovani donne, talvolta addirittura bambine, quasi sempre meticce, di umile estrazione sociale, spesso impiegate in una delle centinaia di maquilas cresciute come funghi intorno alla città, residenti in una delle tante bidonvilles periferiche.”

Nella città messicana, dal 1993 ad oggi, 430 donne sono state assassinate e 600 sono desaparecidas: un bilancio drammatico, reso ancora più grave dal clima di impunità che si respira nella città. Le famiglie delle vittime sono ostacolate nella loro ricerca della verità, gli assassini protetti, le indagini non fatte. Per porre fine a tutto ciò, nel 2001 è nata l’associazione Nuestras Hijas de Regreso a Casa (Le nostre figlie di ritorno a casa), a seguito della scomparsa di Lilia Alejandra García Andrade di cui Marisela era stata l’insegnante”. Un film, Bordertown, ha raccontato la storia di queste donne sparite e di quelle che lottano.

Allego il testo di un’intervista rilasciata il 18 ottobre da Marisela alCentro Pandora di Padova e alleDonne in Nero. Ringrazio Anita Silviano per aver messo in rete la notizia, tragica, ma che dobbiamo conoscere e divulgare. Con Marisela e tutte le donne che vogliono ritornare a casa vive e lottano per questo.

Intervista a Marisela Ortiz Padova – 18 ottobre 2008

Vorrei porti una domanda sul coraggio: dove trova una donna il coraggio per affrontare quello che tu stai passando, minacce, tentativi di ucciderti, mobbing, e per continuare, dato che nonostante tutto vai avanti? Come si fa a convivere con la paura?

Non è una decisione che ho preso da un momento all’altro, credo sia un processo lungo, è un apprendistato che viene da tutte le esperienze che mi sono capitate durante tutti questi anni. Penso che la forza la devi avere, quando hai esempi come questi di fronte a te: un gruppo di madri che hanno perso in maniera così tragica le proprie figlie, che vivono senza dormire e pensano sempre alle sofferenze che hanno passato le loro figlie e che, nonostante questo dolore, lottano per andare avanti, per stare con i propri figli, per cercare la giustizia e per cercare di evitare che altre madri soffrano questo terribile dolore. Allora, quando hai davanti a te questi esempi, non puoi far altro che seguirli. Per me è un grande impegno, l’ammirazione e il rispetto che ho per queste donne mi fanno andare avanti e, d’altra parte, ho una famiglia che mi ha sempre appoggiato.

Certo, all’inizio è stato difficile, come ho detto è un processo che non inizia dalla mattina alla sera. Bisogna passare per molte cose. All’inizio le mie figlie mi reclamavano e mi dicevano che avevano bisogno di stare con me, ma anche loro poco a poco si sono sentite coinvolte perché hanno capito l’importanza di questa partecipazione e sapevano che, se non lo avessimo fatto noi, nessuno lo avrebbe fatto. Ho una famiglia che capisce la situazione, che aiuta, che partecipa e quindi non possiamo sottrarci nei confronti della nostra comunità, d’altra parte ci sono persone che sperano in me. Anche se avessi voglia di ritirarmi per riposare, non potrei, perché ho davanti a me una situazione particolare e un grande impegno.

Adesso, per me, è anche difficile nelle occasioni in cui mi chiamano e mi dicono che mi danno un premio, io dico: “Perché? Sto semplicemente portando avanti una funzione sociale, il mio impegno di cittadina. Sì, c’è sforzo, ma perché non sforzarci per quelli che amiamo?”. Ma poi ho capito che, come dice Amnesty International, i premi servono a proteggerti, a dare forza al gruppo, a renderti più visibile e a non farti rischiare tanto hai fatto finora. Perché, comunque, la paura è sempre esistita, non c’è paura che si possa superare così semplicemente. Il fatto di sapere che tutti i giorni puoi perdere la vita per mano di gente che non ha scrupoli è terribile. Credo che non supererò mai la paura, ma tuttavia ho imparato cosa farci. Perché, prima, era una paura che avrebbe potuto paralizzarmi, che avrebbe potuto spingermi a tirarmi indietro per dedicarmi ad altro: la mia vita, i miei figli, la mia famiglia, ma ora ho deciso di continuare nonostante la paura, e mi sono detta che anche così possiamo andare avanti.

La paura non deve farmi nascondere sotto il letto, non deve farmi tenere le braccia incrociate: devo affrontare la situazione per rendermi più coraggiosa e perché la gente che mi minaccia non veda mai la mia debolezza.




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