venerdì 18 dicembre 2009 - Doriana Goracci

Anarchia, e che il Mediterraneo sia non una bara

Se non c’è la finestra di una questura a disposizione, per uccidere un uomo libero va bene anche il letto di contenzione di un ospedale psichiatrico.

Anarchia: definire questa parola è già confinare, esattamente quello che ogni donna e uomo libero non vorrebbe. Ma l’uso è invalso nel tempo, nel senso più dispregiativo e distruttivo.

La data della morte di Giuseppe Pinelli, 40 anni di stragi compiute e irrisolte, parla da sola. Pinelli venne definito, e lo era nel senso più completo, un anarchico. Esattamente come Francesco Mastrogiovanni, morto su un letto di contenzione dove è stato legato per un Trattamento Sanitario Obbligatorio, 80 ore, in questa estate 2009. Nessuno ha messo in dubbio questa loro appartenenza. Giustizia e verità si faranno, si tenteranno, comunque. Pinelli era un ferroviere, Mastrogiovanni un maestro: c’è una differenza? Nessuna. Lavoravano per sé e per la collettività, e con dignità straordinaria, non comune.
 
Ho riportato le due righe di un blog, La Dimora del Tempo Sospeso, che ieri era arrivato a 200 commenti, un punto di riferimento per i parenti e gli amici, quelli nuovi e vecchi di Franco. Un cifra simile ai commenti compariva per la cronaca greca: “Duecento giovani mascherati si sono scontrati con reparti della polizia nel centro di Atene dopo che avrebbero compiuto atti di vandalismo, apparentemente in risposta all’arresto di quattro studenti appartenenti al gruppo armato anarco-insurrezionalista Cospirazione dei Nuclei di Fuoco. I giovani anarchici, riferiscono fonti della Polizia, hanno dato fuoco a contenitori di immondizia nel quartiere di Exarchia, al centro della capitale, provocando l’intervento delle forze dell’ordine che hanno reagito con gas lacrimogeni al lancio di pietre”. Avevano i cappucci neri, una nota di colori-tutti che ritorna. Mi ritorna alla mente anche un Carosello che vedevo come altri milioni di italiani, quando ero una ragazzina: c’era un’etichetta nera, un pupazzetto incappucciato e un signore, Gino Cervi, che fumava la pipa bevendo un Brandy.
 
Neri i vestiti e il cappuccio, sono passati decenni, e gli anarchici italiani, in sei, fecero irruzione nello storico ristorante il Cambio, a Torino, buttando letame e “terrore” tra i commensali, al grido di guerra al lusso, contro i Cpt, i centri di detenzione, il 22 marzo 2009. Quella notte mi segnalò la notizia via mail un anarchico, Michele: sarebbe morto dopo poche ore, a 52 anni, a Molfetta. Voleva lasciare ciò che aveva agli anarchici, ma non lasciò niente di scritto se non quella sua ultima mail che mi inviò, e tutto è ancora sotto sequestro.

Il 6 settembre 2009 Michele Fabiani, detto Mec, pubblica "Sperimentiamo l’Anarchia", un libro che è un insieme di articoli e riflessioni, scritto prima, durante e dopo il carcere, accusato di far parte di una cellula anarco-insurrezionalista denominata Coop-Fai (Contro ogni ordine politico, Federazione Anarchica Informale). E’ molto giovane, nato a febbraio del 1987: quanti lo conoscono? La questura, sicuramente bene.

Il 10 dicembre 2009 la Federazione Anarchica Torinese, FAI, scrive: “Torino. Cà Neira è stata sgomberata, ma non finisce qui. Giovedì 10 dicembre, ore 6. Digos e agenti in assetto antisommossa buttano giù la porta di Cà Neira, il posto occupato domenica 6 dicembre dalla FAI torinese. I compagni all’interno vengono denunciati per invasione di edificio. Il tam tam della solidarietà scatta subito. Arrivano compagni a dare una mano a portare via tavoli, stufe, libri, cucine e brande. Contemporaneamente, la polizia si presenta in forze anche all’Ostile, occupato tre settimane prima. Sei persone salgono sul tetto e lo stabile viene invaso dalle forze del disordine statale. Mentre scriviamo, i sei sono ancora sul tetto. Non si può dire che a Cà Neira questo sgombero giunga inatteso. Molti consideravano una vergogna che un edificio pubblico fosse abbandonato al degrado e all’incuria ed hanno apprezzato che qualcuno, rimboccandosi le maniche, lo stesse ristrutturando per renderlo agibile”. Molti? Leggo: “Giovedì hanno sgomberato nello stesso giorno Cà Neira e l’Ostile. Ma non tutte le ciambelle riescono con il buco. All’Ostile sei occupanti hanno resistito sul tetto per un’intera giornata prima di venire tirati giù, mentre in strada le camionette impazzavano contro quelli che si erano radunati in solidarietà. A Cà Neira, in via Zandonai, l’ex scuola che abbiamo occupato la scorsa settimana, hanno fatto più in fretta ma il giorno stesso sono stati obbligati a impiegare la celere in assetto anti-sommossa per sgomberarci dall’ex cinema Zeta, che abbiamo occupato a poche ore dal primo sgombero. Oggi, come nel Sessantanove delle stragi e dell’assassinio di Pinelli, la criminalità del potere è sempre la stessa. Oggi come allora chi lotta per una società più giusta e più libera fa paura, viene criminalizzato e represso. Il filo della memoria di quella lontana stagione, a volte sfilacciato ed esausto, si rinvigorisce ogni giorno. In ogni luogo dove cresce la resistenza alla barbarie in cui siamo immersi”.

E le donne, quelle libere, dove trovarle? Dicono che “durante la rivoluzione spagnola del 1936-39, diverse decine di migliaia di donne, soprattutto operaie, presero il loro destino in mano e "si aprirono come delle rose" nel vortice della più grande rivoluzione sociale di tutti i tempi. Il loro movimento, le "Mujeres Libres", le "Donne Libere", è semplicemente unico nella storia dell’umanità. Unico perché popolare, profondamente radicato nella lotta sociale e nella quotidianità del processo di emancipazione delle donne. Unico perché rivoluzionario e risolutamente anticapitalista. Unico perché agli antipodi, da un lato, di un femminismo borghese sordo nei confronti delle condizioni sociali dell’oppressione femminile e, dall’altro, di un femminismo marxista cieco davanti all’esigenza di liberazione sessuale, politica, egualitaria e libertaria insita nel processo di emancipazione delle donne. Unico perché inesorabilmente libertario nella sua lotta per la "liberazione" dai lacci patriarcali, nonostante disconoscimenti vari. Talmente unico che è sempre stato occultato: l’esperienza delle "Mujeres Libres" non ha mai smesso né smetterà di disturbare”.

Forse come Emma Goldman? “Nota per il suo attivismo appassionato, il suo temperamento indomabile, l’audacia delle sue campagne sul controllo delle nascite e il libero amore, il rigore della sua lotta contro la coscrizione e la guerra, il prezzo altissimo pagato per le sue idee. Il sentiero tracciato da Emma Goldman stessa nell’autobiografia, "Vivendo la mia vita", l’avventura eroica di una donna, ebrea, immigrata, anarchica che seppe aderire nella propria vita ai propri ideali. Già negli anni Trenta, Emma Goldman era diventata una figura mitica, un’icona, il simbolo della fierezza anarchica”.

Nel 2004, Arianna Fiore su "Rivista Anarchica 2004" riporta integralmente: “L’utopia permanente. Un vecchio anarchico spagnolo ricorda la rivoluzione del ‘36″, incontro con Abel Paz, detto Diego Camach.

L’incontro cominciò curiosamente così: “Vorrei iniziare questa conferenza ringraziandovi per la vostra presenza, e soprattutto le donne, che sono molto più numerose degli uomini. Non so come mai, ma alle donne interessa l’anarchismo molto più che agli uomini e questo è molto importante perché alla fin dei conti la donna è il motore della storia. Fino ad oggi la donna non ha contato molto nella storia, si è arrivati perfino a credere che non avesse l’anima”. E segue non solo un’ironica storia sul Concilio di Trento, i cardinali e le donne, ma su molte altre cose di non piccolo conto: un documento da leggere, tutto.

Dove trovare, ritrovare queste "Anime Salve"? Sono solo passaggi e passaggi di tempo? Il discorso sulla libertà descritto e cantato da De Andrè l’ho ritrovato dunque in questo video, girato in un’aula, realizzato per l’esame orale della maturità: “L’individualità, complessa nelle sue forme di semplice esistenza, e la collettività, divisa tra acqua e olio”.

E allora da una parte la storia di donne e uomini che si emancipano insieme e dall’altra oggi, una sorta di devastatrici indignate e distruttori di cassonetti e banche. Cos’è che sappiamo fare, quale rivoluzione quotidiana in nome della libertà portiamo avanti? Resistenza, alcuni sono convinti di averla fatta anche a migliaia, a Roma, nelle migliaia di manifestazioni e presidi di questi 40 anni. Basta?

Dalla Terra di Puglia arrivano rivendicazioni contrattuali, richiesta di pane e lavoro, riapertura di fabbriche. Questa è la riappropriazione, la lotta che ci aspetta? Questa è la sinistra pronta alla conta delle vittime del sistema tutto? Dalla terra di Puglia mi arrivano come remi di una barca, come braccia e mani e volti, la testimonianza di donne e uomini, ormai quasi tutte e tutti scomparsi: "Gli anarchici a Canosa di Puglia. Straordinario documento originale sull’attività degli anarchici canosini nel 1968". Dove ci siamo dispersi, dove la solitudine diventa collettività di sapere e fare, piacere di disporre del tempo libero, che non è quello concesso dal padrone di turno?

Per andare ancora più avanti, Gino Ancona, l’anarchigiano come si autodefinisce, quello che avevo conosciuto appena, al funerale di Michele a Molfetta, lo stesso che mi invitò a scrivere di Francesco Mastrogiovanni, e poi con tante altre brevi note e segnalazioni, dalla Puglia mi dice di sentirsi solo, come lo spazio che ha messo in rete, reale, "Arti e Mestieri". Si rivolge quando scrive, ormai raramente, con un amaro e stanco "Miei cari", come in questa di oggi: “Miei cari, come potete vedere basta che tutto sia finzione scenica e il tutto si risolva nel parlare del fatto senza risolvere ma rimanendo al fatto che altri decidono e gestiscono, e si diventa famosi soprattutto perché si continua a gravare ulteriormente sulla di già miserabile umana condizione”.
 
E’ possibile non parlare di bare ma di progetti di vita reali, da fare subito e urgentemente, perché la guerra che la nostra generazione non ha visto è sempre più vicina? E arte è anche musica come quella di Eugenio Bennato, danzare come nella “riscoperta e reinvenzione della tradizione della Taranta, danza rituale del Sud d’Italia, dalle origini antichissime. Una danza liberatoria, che risente delle suggestioni mediterranee dei ritmi greci e degli echi musicali nord e medio-orientali. E’ il suono della terra salentina, all’estremo meridionale della penisola italiana: il cosiddetto “tacco dello stivale”, tra il litorale brindisino, il golfo di Taranto e Leuca, “finibus terrae”. Che il Mediterraneo sia, e non una bara, ma vita.
 



Lasciare un commento