mercoledì 29 settembre 2021 - Enrico Campofreda

Zaki, rinvio al 7 dicembre

Stavolta è la difesa di Patrick Zaki a prolungare i tempi. La prossima udienza a carico del ricercatore egiziano dell’Università Alma Mater Studiorum di Bologna, che si terrà sempre presso il Tribunale di Mansura, slitta di dieci settimane (7 dicembre). 

Consentirà all’avvocata di difesa Hoda Nasrallah di studiare ed esaminare appropriatamente gli atti giudiziari di cui ha chiesto alla Corte copia del fascicolo. Finora li aveva potuti visionare solo presso gli uffici competenti. La sentenza nei confronti del giovane, che può essere emanata in qualsiasi udienza, riguarda la “diffusione di notizie false” attraverso i social. Per tale reato la pena prevista è fino a cinque anni di detenzione. Secondo le leggi vigenti sotto il regime di Al-Sisi possono essergli attribuiti anche il crimine di “minaccia della sicurezza nazionale” e quello di “terrorismo”, per i quali la reclusione raggiunge i 25 anni e oltre. Sono due aberranti percorsi repressivi con cui si sta cercando un capro espiatorio internazionale, dal momento che il caso Zaki è diventato di dominio pubblico non solo in Egitto e in Italia. Quaranta europarlamentari hanno firmano un appello per la sua liberazione. Però il governo cairota, oltre a respingere ingerenze esterne su questioni di sicurezza nazionale - questo affermano i giudici -, oppone al sostegno di familiari, attivisti dell’ong Egyptian Initiavive Personal Right, studenti dell’ateneo bolognese, Amnesty International, più qualche amministratore emiliano e onorevole italiano, il proprio teorema accusatorio per creare un esempio generale da applicare al futuro.

Come l’omicidio Regeni ha praticamente azzerato studi sul campo e gli stessi reportage giornalistici in loco, la vicenda dello studente, che rischia di restare venti mesi e forse più in prigione solo per avere espresso un libero pensiero sull’abolizione del diritto di pensiero e di parola nella grande nazione araba, rappresenta un monito al mondo, invitato a non immischiarsi, e alla popolazione islamica, copta, laica che sia. Alla quale si chiede fedeltà e prostrazione al presidente-golpista e oppressore pena il rischio di non poter vivere neppure da sudditi silenti. E’ la storia di Alaa Abdel Fattah, delle sorelle Sanaa e Mona, della madre Layla lui incarcerato, loro fuggitive oppure a rischio di fermi e reclusioni che già si sono ripetuti. E si tratta pur sempre degli episodi più conosciuti, riguardanti attivisti, familiari, cittadini diventati, loro malgrado, celebri seppure all’interno del tragico tunnel della repressione subìta e in corso d’opera. Eppure fra i sessantamila detenuti di una fra le lobbies militari più potenti del globo ci sono persone di cui nessuno parla, anche perché gli stessi avvocati dei diritti non sono messi in condizione di poter conoscere casi, accuse, situazioni generali e particolari del carcerato, talvolta neppure la galera dov’è stato sepolto. Il balletto delle Corti può proseguire, e soprattutto l’angoscioso sistema che ti rimanda ad libitum la libertà e l’esistenza intera.

Enrico Campofreda




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