giovedì 2 marzo 2023 - Libero Gentili

Yoga e libertà

Il tema è centrato sulla parola libertà, la quale può racchiudere in sé un alto numero di significati e di sfumature in ambito sociale, etico, morale secondo una visione e un concetto strettamente personali.Alcune riflessioni nate dalla personale esperienza formano l’oggetto di questo episodio, il quale non prenderà in esame l’aspetto dottrinale, ma comprenderà spunti ed orientamenti per un insegnamento rivolto in particolar modo a persone che per la prima volta si accostano alla disciplina dello Yoga.

Si tratta, sicuramente, di quella fase più delicata la quale condiziona tutto il processo successivo di integrazione dell’individuo con una nuova visione della realtà, una diversa valutazione del proprio ruolo nel mondo e in seno alla società stessa.
Una fase, indubbiamente, di crescita paragonabile per certi versi a quella che, nel bambino, viene curata dalla pedagogia.

Ma l’andragogiala scienza di rieducazione dell’adulto, non è meno importante ed impegnativa, in particolar modo se applicata all’insegnamento dello Yoga dove si crea necessariamente una certa risonanza emotiva.

Questa prima, fase, allora, dovrà consentire al praticante di potersi sottrarre al costante risucchio quotidiano verso l’esterno, alle innumerevoli relazioni superficiali che diventano costante abitudine; dovrà consentirgli, in sostanza, di rielaborare il proprio vissuto, alla luce di semplici esperienze simboliche, ma che lo coinvolgano nella sua globalità, quindi anche nella propria dimensione profonda.

Sono orientamenti, questi, che certamente scaturiscono da una visione personale - e quindi parziale - ma anche dalla consapevolezza che l’insegnante di Yoga, in Occidente, è un rieducatore emozionale, cognitivo e comportamentale prima ancora che, eventualmente, un maestro spirituale, un “guru”.

Semina un pensiero e raccoglierai un’azione semina un’azione e raccoglierai un’abitudine semina un ’abitudine e raccoglierai un carattere semina un carattere e raccoglierai un destino.

Il tema è centrato sulla parola libertà, la quale può racchiudere in sé un alto numero di significati e di sfumature in ambito sociale, etico, morale secondo una visione e un concetto strettamente personali.
Libertà è decidere e renderti conto che stai decidendo, ma è anche, secondo il pensiero di Montesquieu, il diritto di fare tutto quello che le leggi permettono e, aggiungo, quello che gli usi ed i costumi sociali e, quindi, le convenzioni permettono.

Ne derivano due concetti di libertà i, quali si collocano in certo qual modo agli estremi di una scala di valori:

-  quello del diritto assoluto, che saremmo portati a rivendicare in una certa epoca della nostra vita e della nostra maturità, quando quel senso profondo dell’esistenza comincia a balenare nel nostro intelletto, facendoci anche diventare meno tolleranti, meno accomodanti rispetto a tutto ciò che in precedenza costituiva la base di una esistenza ordinaria; quella forza, insomma, quella enorme spinta che in India conduce asceti e ricercatori a troncare di netto qualsiasi residuo legame con ogni forma organizzata, sia essa sociale che religiosa


-  e la libertà relativa all’interno della società, quella che struttura ed organizza il nostro stile di vita in base ad un sistema che premia l’allineamento, l’anticonformismo nel conformismo, la globalizzazione, la quale regola i mercati finanziari così come gli esseri umani.

Anche questa pseudo libertà, in ultima analisi, può far scaturire quella spinta che, alla fine, per reazione, ti spinge a ricercare l’altra libertà, quella assoluta, ma quasi sempre troppo tardi.

Ecco, allora, l’opportunità che lo Yoga, oggi, può offrire: il recupero di quella libertà di cui l’uomo attuale ha più bisogno che mai; un recupero realizzato giorno per giorno, nella quotidianità della nostra vita, che prescinda dalle facili fughe dalla realtà, consapevoli del proprio ruolo, o se preferiamo, del proprio karma in una società la quale si fonda su valori che, probabilmente, non amiamo troppo, ma con i quali tuttavia dobbiamo confrontarci giorno dopo giorno, attimo per attimo.

Avviare, in sostanza, il nostro processo di reintegrazione senza farci del male.
“In una fredda giornata d'inverno un gruppo di porcospini si rifugia in una grotta e per proteggersi dal freddo, si stringono vicini.
Ben presto, però, sentono le spine reciproche, e il dolore li costringe ad allontanarsi l ’uno dall'altro. Quando poi il bisogno di riscaldarsi li porta di nuovo ad avvicinarsi, si pungono ancora.

Ripetono, così, più volte questi tentativi, sballottati avanti e indietro tra i due mali, quello del dolore fisico per le punture che si infliggono reciprocamente e quello del freddo congelante, finché la saggezza non li porta a trovare quella moderata distanza reciproca che rappresenta la migliore posizione, quella giusta distanza o vicinanza che consenta loro di scaldarsi e nello stesso tempo di non farsi male reciprocamente”.

Affinché queste mie considerazioni possano avere un significato è necessario, però, definire il campo di indagine a quei riferimenti sui quali si basa l’insegnamento di una disciplina come lo Yoga la quale, nella sua essenza, non si è scostata dai canoni originari.

Ma i tempi cambiano, il pensiero subisce una evoluzione per certi aspetti e una involuzione per altri, modificando alcune volte, sostanzialmente, i criteri di interpretazione della realtà e quindi dei rapporti che regolano la condotta umana.

Nel corso dei miei anni di insegnamento ho potuto verificare che le motivazioni, le quali spingono le persone ad accostarsi a questa disciplina, possono essere svariate.
Ad esempio, un desiderio di recuperare un certo equilibrio psicofisico, o solamente una migliore forma fisica, dimostrando così una preoccupazione di carattere esteriore e, a volte, una volontà di recupero della propria dimensione interiore; oppure per moda o per tendenza; o anche per una esigenza totalmente spirituale, a volte religiosa ecc.

Si presentano così all’insegnante diverse ipotesi di lavoro, le quali possono in apparenza aver poco o addirittura nulla in comune, ma che nel corso del tempo e nella misura in cui le persone dimostrano un certo grado di costanza, appaiono tutte riconducibili ad un’unica spinta: un desiderio, a volte inconsapevole, di avviare in sé stessi un processo di reintegrazione.

Si tratta, evidentemente, di differenti espressioni di linguaggio, coerenti con la cultura a cui si appartiene, con le esperienze vissute ecc.

L’insegnamento dello Yoga è nato, molto probabilmente, sulla base di un rapporto strettamente personale tra maestro e discepolo e con un intento di ricerca difficilmente sostenibile nella comune nostra cultura.
E tuttavia, esso è andato sempre più diffondendosi in occidente, anzi ritengo si possa sostenere, paradossalmente, che attualmente, esso è divenuto assai più popolare da noi che in India stessa.

Ho potuto più volte constatare, durante i miei viaggi in India, come l’indiano che si incontra per la strada, parlando dello Yoga assuma senz’altro un atteggiamento di profondo rispetto, spesso di “eccessivo” rispetto, il quale lascia tradire un distacco, anche se orgoglioso, simile a quello che potremmo dimostrare noi occidentali parlando dei nostri musei e delle nostre opere d’arte.

Una distanza che si è andata sempre più accentuando, anche per quell’inevitabile travaso della cultura, il quale già ai primi del novecento, era stato presagito da pensatori come Evola e Guénon.

Ma mentre tale fenomeno, in India, sta sempre più trasformando le abitudini, gli usi e i costumi della gente, soprattutto nelle città, ridisegnando uno schema di vita che fino a poco tempo fa era basato esclusivamente su una visione tradizionale, in Occidente la cultura indiana, eccezion fatta naturalmente per le ricerche e gli studi accademici, ha tutt’al più promosso isolati movimenti mistici e religiosi (a cominciare da quello fondamentalmente evasivo dei giovani degli anni sessanta) legati al culto di una personalità storica, più che ad una visione generale dell’esistenza.

Pertanto, anche se i presupposti alla pratica dello Yoga, qualunque essi siano - desiderio di trascendenza, evasione, semplice curiosità - potrebbero favorire potenzialmente questo processo di scambio, di fatto esso si limita a isolati fenomeni i quali, peraltro, non sono neanche ben visti e tollerati da quanti non li condividono, ossia la stragrande maggioranza.

E non ci sarà, a mio avviso, possibilità di cittadinanza finché non si riuscirà a realizzare quell’opera di trasformazione, intesa nel suo pertinente significato, ossia di acquisizione di un pensiero tralasciando, nei limiti del possibile, tutte quelle “sovrastrutture” per lo più scenografiche che, se possono essere pertinenti al proprio stile di vita, al di fuori di questo ne appesantiscono la natura riducendolo, il più delle volte, ad una “ridicola mascherata”.

Vestirsi in un certo modo, ragionare e comportarsi fuori degli schemi, i quali regolano la nostra società attuale, ecc.… Ci siamo capiti!

Ecco, allora, nell’insegnamento dello Yoga, l’opportunità di trovare un linguaggio comune alle diverse necessità esplicitate da atteggiamenti e comportamenti differenti. Un linguaggio, però, che sia coerente con la cultura alla quale si appartiene, altrimenti rischia, di nuovo, di non essere intesi. Pertanto, la prima libertà da riconquistare sarà quella dai pregiudizi che si sono andati costruendo in Occidente attorno a questa cultura.

Determinante, a questo scopo, è il ruolo dell’insegnante, e il suo atteggiamento con l’allievo.
Anche se a frutto della propria ricerca personale egli abbia raggiunto un grado di maturità e di spiritualità elevate, deve tuttavia riflettere, in ogni attimo del suo lavoro, che egli sta insegnando deliberatamente e si è impegnato a rieducare individui i quali, molto probabilmente, sono ancora lontani dai traguardi da lui raggiunti.

La sua etica avrà quindi, innanzitutto, scopi pratici impegnandosi a rendere l’allievo migliore, più equo e più coraggioso, in parole povere rispettare innanzi tutto l’umano che c’è in ognuno di noi. Come sarebbe possibile, altrimenti, ricercare l’aspetto divino, trattando in maniera astratta la virtù della saggezza e della benevolenza?

Il rispetto del profondo bisogno della persona adulta di essere percepita come un individuo autonomo, indipendente e capace di fare affidamento sulla riserva delle proprie esperienze accumulate, tutela l’insegnante dal pericolo di favorire, consapevole o no, una condizione di dipendenza la quale conduce, nella peggiore delle ipotesi alla formazione di un gruppo settario e, nella migliore, ad una mancanza di sicurezza nell’allievo, la quale potrebbe essere colmata solamente emulando atteggiamenti e comportamenti di “chi ha raggiunto la perfezione”.

In sostanza, l’eccessivo rigore e l’arroganza dottrinale imbrigliano la creatività e la spontaneità dell’allievo.

È necessario evitare, da parte dell’insegnante, di imporre o, solo, di “sovrapporre” le proprie convinzioni su quelle dell’allievo. Mettere da parte la convinzione che il ruolo da lui svolto lo pone automaticamente in una condizione di superiorità rappresenta uno dei principali doveri etici e morali di chi insegna lo Yoga.
Voglio riferirmi all’abitudine, sempre più frequente, di sconfinare in giudizi e valutazioni riguardanti certe abitudini personali come, ad esempio, quella alimentare.

Non intendo, certamente, fare disquisizioni sulla superiorità di un certo tipo di alimentazione rispetto ad un altro, sia sotto il profilo nutrizionale che sotto quello etico e morale, anche se, da quest’ultimo punto di vista, sarebbe interessante fare uno studio, scevro possibilmente da preconcetti, sui vari processi che hanno portato la superiorità di una alimentazione carnivora durante il periodo vedico alla sua successiva degradazione associandola al concetto di Ahimsa, cioè “non nuocere” (A come avverbio privativo + himsaviolenza).

Interessanti a questo proposito, sono le riflessioni fatte da una illustre studiosa contemporanea come Wendy Doniger O’ Flaherty nella sua introduzione alla traduzione del Manava Dharma Shastra - Le Leggi di Manu - (oltre naturalmente al prezioso studio di Louis Dumont HOMO IERARCHICUS) dove si rileva come la trasformazione degli usi alimentari di una certa classe sociale, fu il probabile risultato della necessaria trasformazione di alcuni valori (come il concetto di puro ed impuro) per mezzo della quale fu possibile ricollocare al vertice della piramide gerarchica la casta dei bramani (classe sacerdotale).

È lampante come certe concezioni finirono poi per costituire il leitmotiv di tutta la successiva speculazione filosofica e soprattutto religiosa.

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"respiro addominale"

Ma qui non stiamo facendo dell’Accademia. Stiamo, invece, tentando di riflettere sui possibili benefici che un occidentale può trarre dalla nostra disciplina, seguitando a vivere in una terra dove la cultura religiosa non rappresenta il fulcro attorno al quale ruota tutta la società, dove non ci sono caste o, più esattamente, quelle che ci sono non fondano certamente la loro supremazia di fatto su precetti alimentari.

Vorrei brevemente raccontare il tenore di una telefonata che ricevetti, tempo fa, da parte di una signora, la quale era alla ricerca di un centro dove poter praticare lo yoga.
Questa persona, la quale aveva già praticato per un certo periodo, desiderava sapere dal sottoscritto - e lo fece in maniera abbastanza accorata - se avrebbe potuto continuare a praticare lo yoga pur non essendo vegetariana.

Era avvenuto che il suo precedente maestro le aveva posto il grosso problema morale della non compatibilità dello yoga con l’abitudine di mangiare carne, interpretata come sorta di violenza sugli esseri inermi.

La signora, quasi cercando dal sottoscritto una sorta di legittimazione nel mangiare carne, confessò candidamente: “non posso e forse non voglio astenermi dal mangiare carne per un altro problema etico: mio marito fa il macellaio, da questa attività noi ricaviamo il nostro sostentamento e non posso ripudiare il lavoro che mio marito svolge con tanta dedizione!”

Quella ingiunzione di non mangiare carne in nome dellahimsa – cioè di una generica non violenza - fondava la sua autorevolezza su un altro tipo di himsa  cioè di violenza forse ben più grave - sulla sfera psicologica e altrettanto morale di quella persona.

Fa parte dell’etica dell’insegnamento conoscere e tenere sempre presente le caratteristiche morfologiche del gruppo, in relazione alle varie differenze strutturali fisiche e psichiche dei singoli componenti ma, anche in linea più generale, le evidenti diversità che ci sono tra un orientale e un occidentale.

Non mi riferisco solamente alle difficoltà che si possono incontrare nel proporre particolari movimenti o posture le quali, se non costituiscono un problema per un indiano abituato ad uno stile di vita completamente diverso dal nostro, nell’occidentale questo può rappresentare spesso motivo di scoraggiamento ed una ragione in più per desistere definitivamente.

Il mio specifico riferimento, invece, è rivolto alla tendenza sempre più consolidata in questo ultimo periodo, di proporre indiscriminatamente tecniche di risveglio immediato - e sottolineo questo aggettivo - delle cosiddette energie latenti nell’uomo le quali, una volta utilizzate favorirebbero il risveglio di Kundalini.

Sappiamo tutti, se non altro per aver letto qualcosa sull’argomento, che la prassi realizzatrice di tale risveglio prevede lo sviluppo verso l’alto di tutti i processi psicofisici dell’organismo, in sostanza, tirare verso l’alto, attivare il torace e con esso la volontà e soprattutto l’atteggiamento consapevole.
Che senso può avere, allora, tutto il tempo dedicato alla rieducazione di un respiro addominale in quanto la respirazione è connessa con i nostri stati psichici e quindi anche con gli strati inconsci?

Sappiamo che nello stato di eccitazione il respiro si sposta normalmente verso l’alto, quasi a confermare il modo di dire: “...è fuori di sé!” e quando invece ritorna la calma, anche il respiro ritorna nelle regioni più basse del corpo, e lo yogi che sa respirare correttamente, utilizza bene il diaframma, in quella respirazione naturale che già i bambini piccoli praticano spontaneamente.

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"tutto verso l’alto!" l’esasperazione del respiro.

E poi sappiamo che questo tipo di respirazione crea un’atmosfera spirituale favorevole ed è di grande importanza per una corretta disposizione psicofisica.
Serve, in sostanza, a riportare il baricentro psichico al suo giusto posto, il quale si trova pressappoco al centro del corpo, alla stessa altezza del baricentro fisico!

È in questa dimensione che l’uomo giunge senza sforzo al tranquillo e naturale dominio di sé, all’equilibrio interiore!
Ma l’uomo occidentale, il quale è succube degli effetti alienanti del suo ambiente, dell’attività esagerata, della fretta, della convulsione, dello stress, della mentalità efficientistica, dello spirito razionalistico, dei desideri inappagati e inappagabili, degli impegni gravosi, della noia, dell’ansia, degli errori subiti nella propria educazione e non corretti, dell’insoddisfazione, delle ambizioni mortificate, dell’insuccesso...!

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respiro verso il basso=calma e tranquillità.

Non l’uomo orientale, il quale vive costantemente nella pancia! Per verificarlo, provate a confrontarvi con i loro ritmi molto rallentati, durante una bella vacanza in India, ancora meglio se in particolari situazioni di agitazione da parte vostra!

Evidentemente, per ritrovare il proprio equilibrio, l’occidentale che è troppo spostato nella testa e nel petto, dovrà scendere, mentre invece l’orientale che vive ed esiste nella pancia dovrà salire, evitando così di affondare nel profondo.

Non intendo sostenere che ad un occidentale sia preclusa quell’affascinante via, la quale conduce per i percorsi mistici ed interiori e la cui sublimità di immagini ed allegorie ci mozza il fiato, descritta in certe forme di Yoga; intendo solamente ribadire che una pratica indiscriminata, quale viene sempre più frequentemente proposta a gente sprovveduta, rischia di esasperare la sua naturale tendenza verso l'alto, fissando come definitiva la dicotomia fra spirito e profondo.

La bellezza delle immagini iconografiche dell’India, la loro ricchezza e la ricercatezza dei particolari, l’eleganza dal sapore esotico appagano talmente la nostra fantasia, che il più delle volte si trasformano nella gabbia dorata dalla quale non sappiamo più uscire, limitando irreparabilmente la comprensione intima e profonda dei loro significati culturali.

In questa cultura il più piccolo particolare, non solamente una posa, un gesto, una particolare acconciatura dei capelli, ma anche un sottile cambiamento dell’angolo di un sopracciglio, spesso una sfumatura che trascolora timidamente, celano dentro di sé una profondità di significato che il neofita non può neanche immaginare.

Avvezzi, come siamo, al Regno della Quantità, ci guida la voracità di un sapere che il più delle volte si limita al superficiale, all’accessorio, dandoci una conoscenza enciclopedica che il più delle volte ci porta a travisare, più che a comprendere.

Occorre “dare” con parsimonia, evitando per quanto possibile di fare sfoggio del nostro sapere e lasciando che la mente altrui, non ancora avvezza, assimili quasi realizzando un processo di transustanziazione, il quale ci permetta di non percepire più il profumo dell’esotico che impedisce l’efficace comprensione di questa cultura.

Sosteneva Plutarco: “...la mente non ha bisogno, come un vaso, di essere riempita ma piuttosto, come legna, di una scintilla che l’accenda e vi infonda l’impulso della ricerca ed un amore ardente per la verità”.

Eviteremo, così, che intorno a noi si parli a vanvera di Chakra(s), di Nadi(s), di energie balenanti e roteanti come palle di fuoco minacciose...

Una volta un famoso oratore, abituato a parlare a grandi platee viene invitato a tenere una conferenza in un piccolo paese. Quando arriva vede, con suo disappunto, che nella sala conferenze c’è un unico signore.
Non sa bene cosa fare e dice all’unico ascoltatore:

“Voi mi avete invitato qui e ad accogliermi trovo solamente lei; mi chiedo se valga la pena che faccia la mia conferenza”.
L’unico signore presente, con molta serenità risponde: “Io sono un semplice allevatore di cavalli e se una mattina vedo che dei miei trenta cavalli, ventinove sono scappati, a questo uno io la biada gliela dò!”

Il famoso oratore capisce e comincia il suo discorso. Preso dalla foga di ciò che dice parla, parla, parla
Dopo circa un’ora e mezza, quando ha finito si rivolge nuovamente all’unico ascoltatore e gli chiede: “Allora, le è piaciuta la mia conferenza?” e il signore con molta serenità risponde: “Vede, io sono un semplice allevatore di cavalli: Se una mattina, entrando nella stalla, mi accorgo che dei miei trenta cavalli, ventinove sono scappati, io a quell’unico rimasto non do tutta la biada destinata ai trenta!”

L’uomo del nostro tempo vive generalmente in un ambiente ostile alla percezione profonda della realtà.
Noi viviamo in un mondo complicato e vorticoso, dove la sovrabbondanza di stimoli e di offerte cattura continuamente la nostra attenzione, dove le novità esigono continui cambiamenti e la pubblicità non cessa di attirarci e di stimolarci.

Il corpo, il nostro organismo, non può più sottrarsi a questo processo e così viene inesorabilmente impoverito e limitato da una mentalità utilitaristica e ridotto a semplice mezzo strumentale.
Non solamente gli stessi gesti che compiamo nella routine della nostra vita quotidiana hanno assunto tale caratteristica, ma anche quelli straordinari, scaturiti da una volontà decisa e da una azione vigorosa rischiano quasi sempre di non cogliere la realtà essenziale e di perdere di vista il vero significato della vita.

Nella cultura indiana, la Creazione divina è chiamata lila, cioè atto giocoso, perché si sottrae al carattere obbligatorio degli atti dovuti, perché nel gioco c’è la piena espressione della libertà, e il massimo potere creativo.

Attraverso lo Yoga, noi possiamo far diventare i nostri gesti una creazione continua abbandonando, almeno temporaneamente, la visione unilaterale del mondo, nutrendo di nuovo quegli organi spirituali, i quali sono gli unici in grado di cogliere il senso profondo dell’esistenza.

I gesti del corpo, delle mani in particolare, sono l’espressione diretta e più immediata dei nostri pensieri, sono il prolungamento della nostra mente. Ciò che riusciamo a camuffare con il linguaggio, non sempre riusciamo a farlo con l’espressione corporea.
Ecco, allora, che le posture e i movimenti di una seduta di yoga rappresentano un mezzo ideale per ri-azzerare lo spazio della nostra mente e ricostituire il suo rapporto con il profondo.

L’ampiezza dei movimenti eseguiti - che sarebbe utile non limitare sempre ed esclusivamente a quelli che tradizionalmente sono descritti dai testi, ma che potrebbero invece scaturire dalla libera immaginazione creatrice di chi guida - la globalità di questi gesti iniziali consente al praticate di riappropriarsi dei propri spazi esterni ed interni, una ulteriore conquista della libertà sulle attitudini comportamentali regolate dalle convenzioni, quelle alle quali facevamo cenno all’inizio del nostro discorso e che limitano il senso della nostra libertà.

Solo dopo tale processo di riappropriazione simbolica del corpo, sarà possibile impiegare la meravigliosa arte dello yoga, di cogliere ed elaborare le finezze anche più delicate passando, attraverso l’esercizio neuromuscolare, dalla sfera somatica a quella dello spirito in una esperienza dove spirito e corpo si fondono insieme.

L’allievo potrà così realizzare come l’integrazione della realtà biologica si compia nello spazio dello spirito e quella dello spirito nel campo biologico.

È questa consapevolezza che illumina tutta l’esistenza e può inserirsi negli infiniti orizzonti della libertà.
Non vanno confuse tra di loro, ma neppure rigorosamente isolate; il loro senso dovrebbe invece completarsi in quanto l’una può rappresentare un pallido riflesso, un punto di partenza per l’altra.

Come partecipi della continuità della natura noi siamo soggetti alla necessità, ma ne diventiamo svincolati non appena, per mezzo della conoscenza, realizziamo l’identità con lo Spirito.
Non dobbiamo diventare lo spirito, lo siamo di già, sebbene inconsapevoli di questo fatto.

Di conseguenza noi siamo già liberi, in realtà, a dispetto della assoluta necessità e compulsività dei nostri comportamenti, “così come avviene a colui che ignorando il luogo in cui è nascosto un tesoro, vi passa e vi ripassa senza trovarlo”. (Chandogya Upanishad)

La limitatezza della libertà, reale in sé stessa, appartiene tuttavia all’illusione della realtà empirica e svanisce con essa, così come sostiene la Maitry Upanishad“Egli stesso è legato da sé stesso, così come l’uccello dal suo nido”.

La stessa realtà potrà così essere interpretata e se vogliamo, meditata, sia in base alla concreta esperienza di vita, che alla luce e dentro gli orizzonti dello spirito lasciando che per noi, comuni mortali, l’una non sopravanzi ed oscuri completamente l’altra, così come i porcospini di Schopenhauer ... “finché in una fredda giornata d’inverno non trovano quella moderata distanza reciproca che rappresenta la migliore posizione, quella giusta distanza - o vicinanza - che consenta loro di riscaldarsi e nello stesso tempo di non farsi male reciprocamente”.

Potremmo, così, essere asceti uomini nel mondo al tempo stesso: asceti nella profondità della nostra anima, e individui sociali nella comune ricerca della realtà.

(Questo contenuto può essere ascoltato in formato audio nel Podcast di Eudemonia ai seguenti link: EudemoniaSpotifySpreaker)

 




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