venerdì 12 aprile 2013 - Sergio Giacalone

Un popolo di fuoriusciti

Italiani europeisti. Perché?

Non comprendo gli europeisti convinti. Sarà un mio limite ma non riesco a capire perché dovremmo essere felici di affidare le sorti del nostro paese ai voleri di un mostro che risponde esclusivamente ai richiami dell'economia e della finanza dei paesi forti e i cui appetiti ci espongono allo stritolamento delle nostre già fiaccate risorse ad opera di mandibole prevalentemente e poderosamente germaniche.

Ho difficoltà ad accettare che a quel paese situato nel cuore dell'Europa si debba consentire la realizzazione di quello che, forse proprio in funzione di questa sua collocazione geografica, è stato il sogno di tutta la sua esistenza nazionale: il dominio sull'intero continente!

Interdetti a raggiungerlo con gli eserciti, dopo l'esito della catastrofe nazista, i tedeschi sono ora stati stupidamente autorizzati a raggiungerlo mediante le banche, al suono della baldanzosa fanfara dell'alta finanza.

Ho la netta convinzione che tutto si basi su un grosso malinteso: tutti ci accorgiamo che l'Europa attuale ha un difetto di fondo, che funziona solo sul versante deleterio dell'economia e che produce una crescita sperequata del continente europeo, nella quale le economie deboli sono cibo per quelle forti, agnellini sacrificali.

Gli europeisti convinti, però, dicono che la correzione è rappresentata da "più Europa", il che equivale al raggiungimento di un'unione politica. Il problema è che unione politica e Unione Europea sono un ossimoro. L'unione politica pretenderebbe infatti un coinvolgimento dei popoli d'Europa, la cui volontà diverrebbe elemento pregnante e basilare per il raggiungimento di un'unità di intenti validi per tutti i paesi e identificabili come il bene collettivo dell'intero continente.

Questa sarebbe unità politica. Ma come possono popoli che non hanno ancora imparato a perseguire il bene collettivo nazionale a comprendere quale sia il bene collettivo europeo?

Dirò di più: con la fine della seconda guerra mondiale si è iniziato a guardare ai popoli europei con tale diffidenza che qualunque cosa si sia fatta per mantenere la pace e l'unità del continente la si è orchestrata in modo verticistico e su un piano squisitamente economico, relegando gli aspetti politici ad un ramo talmente asfittico da non essere più praticabile. D'altronde basterebbe guardare ai fatti: noi italiani ci troviamo nell'Unione Europea non per scelta ma per imposizione; in nome di scelte altrui siamo costretti quotidianamente a subire mortificazioni e a rinunciare a pezzi della nostra già martoriata sovranità nazionale per obbedire a finalità che non risultano immediatamente né visibili né comprensibili. Chi scommetterebbe un solo maledetto euro sulla volontaria e consapevole resa del popolo italiano a questo sistema stritola nazioni?

E questo vale per noi come per gli altri popoli d'Europa, e non sono pochi, ai quali è stato accuratamente evitato il coinvolgimento in queste scelte i cui effetti ricadono però esclusivamente e pesantemente sulle nostre esistenze. Francamente non ritengo che vivere in un paese minacciato tutti i giorni di fallimento e contemporaneamente coatto dentro la malefica unione e spremuto in nome di interessi incomprensibili possa essere considerato un'esperienza gratificante.

Per tutto questo io non comprendo gli europeisti, a maggior ragione se italiani.

Non è mia abitudine però puntare il dito senza aver prima cercato di capire i motivi di scelte all'apparenza tanto illogiche, specie se a professarle sono fior fiore di intellettuali, di professori e uomini politici verso i quali generalmente è indirizzata la mia stima. E' chiaro che esistono ragioni che li inducono a subire il fascino per questa che per me rappresenta niente più che una tragica chimera.

Ho cercato di trovarne, individuando una duplice motivazione di fondo nelle pieghe della nostra italianità. Ci sono, a mio parere, una ragione antica e una recente che ci portano costantemente ad allontanarci, pur in totale buona fede, da quello che dovrebbe essere il compito di un popolo, la ricerca della propria dignità e del vero bene.

La ragione recente è costituita dall'esito infelice di quello che è stato uno dei periodi più eroici e ricchi di potenzialità della nostra storia: il passaggio dal fascismo alla libertà. Potevamo uscire dalle forche caudine del regime e della guerra con la forza di una nazione unita dal dolore e dalla voglia di risorgere; potevamo tornare sul solco della tradizione unitaria risorgimentale e in quel solco impiantare i semi di una democrazia moderna ma in uno stato antico, garante della nostra dignità di nazione.

Siamo usciti piegati, divisi più che mai e in balìa di una politica asservita ad interessi non nostri, che nella prospettiva di una finta repubblica democratica ha ucciso ogni rigurgito di dignità, deviando il corso della nostra crescita verso un conformismo ipocrita di cui i partiti politici si sono elette vestali e che ci impedisce, ancor'oggi, di esprimere voci che vogliano suonare fuori dal coro. Questo ci induce spesso a ripetere, magari senza grande convinzione, quello che la cultura di regime espressa da un potere forte o da qualche guru d'opinione fa passare come il messaggio giusto, quello che nel salotto televisivo fa scattare l'applauso, quello che fa tendenza.

Ecco "essere in Europa" mi sembra il frutto acerbo di questo conformismo ipocrita, dandomi più il senso di un must che di una riflessione su un bisogno effettivo.

C'è poi una ragione antica, atavica, squisitamente e geneticamente italiana: siamo un popolo di fuoriusciti. Piaceva dirlo a Montanelli e io mi permetto di sottoscriverlo interamente. Noi viviamo sempre "fuori" anche quando rimaniamo entro i confini nazionali, salvo quei casi in cui siamo costretti a scappare sul serio!

Emblematico in tal senso è il caso dei fuoriusciti antifascisti che all'epoca del regime espatriarono per organizzare la resistenza. Ecco, quella fu forse l'unica volta in cui il nostro endemico fuoriuscitismo cercò di servire la patria anziché avversarla; chiaramente il risultato non si è dimostrato all'altezza delle aspettative, ma va riconosciuto che le intenzioni c'erano tutte!

Per il resto la propensione a "fuoriuscire" è stata ed è una categoria dell’anima italica che, pur nata per mal riposto amor di patria, è risultata per nulla utile ai nostri interessi nazionali. È questa atavica propensione, infatti, che ci ha resi servi degli stranieri prima del processo unitario e suscettibili al loro fascino durante e dopo l'Unità d'Italia; che ci ha visti contesi fra Marshall e Marx nella prima fase della storia repubblicana come oggi ci fa dichiarare pronti a servire l'orco europeo.

In fondo, però, quella espressa dagli amici europeisti è nulla più che coerenza; rifletteva il mio amato Montanelli sulla inutilità di ostinarsi a voler fare l'Italia in un'Italia pronta a fare tutto fuorché l'Italia. Tanto vale arrendersi, dunque, e fare l'Europa!

E che Dio salvi il Re...e noi.




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