martedì 16 febbraio 2021 - Osservatorio Globalizzazione

Tutti gli uomini del Presidente: identikit del governo Draghi-Mattarella

“Governo del Presidente” non è un’espressione giornalistica, e Sergio Mattarella lo ha fatto intendere: il Quirinale ha vegliato attentamente sulla scelta dei ministri da parte di Mario Draghi e ha formato una struttura ministeriale che ne conferma la “dottrina” presidenziale. Blindando attorno a un blocco di super-funzionari e uomini delle istituzioni promossi a ministri le caselle più strategiche.

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Ventitré ministri, una realizzazione attraverso la divisione di deleghe e ministeri del gioco del “Lego governativo” che già Giuseppe Conte aveva in mente per varare il suo terzo esecutivo, un’ampia composizione che unisce figure istituzionali ad esponenti partitici di sei formazioni differenti: Movimento Cinque Stelle (4 ministri), Partito Democratico, Lega, Forza Italia (3 ministri ciascuno), Italia Viva e Liberi e Uguali (uno a testa). Il governo di Mario Draghi nasce come creatura polimorfa e nella sua struttura si intravede la filigrana del Quirinale, di un processo di selezione della classe dirigente di governo che ha contenuto in sè le conseguenze del voto di sfiducia espresso da Sergio Mattarella verso i partiti italiani con la chiamata a Palazzo Chigi dell’ex governatore della Bce.

Recovery e istituzioni blindati da Mattarella e Draghi

L’esecutivo nascente coniuga la necessità di rispondere ai desideri dei partiti di coniugare figure tecniche e esponenti partitici a una strategia politica che Draghi e Mattarella hanno messo pienamente in atto: e cioè una concentrazione del potere decisionale effettivo tra Palazzo Chigi e Quirinale attraverso il controllo dei centri decisionali del governo e dei principali ministeri di spesa e di quelli politicamente più caldi attraverso figure di alto profilo scelte fuori dal mondo politico, pur con una sostanziale approvazione di buona parte delle forze chiamate al governo.

E così nel nuovo esecutivo non possiamo fare a meno di indicare come figura più interessante quella del nuovo Ministro per la Transizione Ecologica, il fisico Roberto Cingolani, da settembre 2019 responsabile dell’innovazione tecnologica di Leonardo ed ex direttore scientifico dell’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova, che affiancherà nell’esecutivo l’uomo predestinato dal “totoministri” alla carica, il professor Enrico Giovannini, massimo esperto italiano di sviluppo sostenibile, che ottiene il ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti. Vittorio Colao, l’ex capo della task force del governo Conte ed ex ad di Vodafone, ottiene la delega al Digitale, mentre dall’alta burocrazia statale e dagli apparati istituzionali sono pescati gli altri tre nomi tecnici di peso del governo: l’ex presidente della Corte Costituzionale Marta Cartabia è chiamata alla Giustizia, l’ex capo del servizio studi di Banca d’Italia ed ex Ragioniere Generale dello Stato Daniele Franco all’Economia e la confermata Luciana Lamorgese mantiene gli Interni.

L’asse Draghi-Mattarella blinda in questo modo il controllo sui tre ambiti di spesa del Recovery Fund (ambiente, digitale, infrastrutture) e chiama nell’esecutivo i più alti rappresentanti di tutte le principali burocrazie strategiche e istituzionali dello Stato: accademia, impresa pubblica, mondo della giustizia, istituzioni finanziarie. Una sorta di richiamo alla “riserva della Repubblica” che chi non ha capito il senso dell’appello di Mattarella ha pensato fosse barattabile per un generico processo negoziale sulle poltrone del governo.

Le figure partitiche: nomi di compromesso

A queste figure si associano, in ruoli in larga parte di complemento, esponenti dei partiti che sosterranno la maggioranza. Luigi Di Maio agli Esteri, Giancarlo Giorgetti al Mise, Lorenzo Guerini alla Difesa e Renato Brunetta alla Pubblica Amministrazione rappresentano gli esponenti di punta di M5S, Lega, Pd e Forza Italia. Eccezion fatta per il leghista Massimo Garavaglia, che però nel governo Conte I ha avuto una pesante esperienza da viceministro al Mef da aggiungere al curriculum politico, tutti gli esponenti chiamati da Draghi nel governo hanno alle spalle esperienza alla guida di dicasteri e rispettive burocrazie.

Draghi ha scelto di non arruolare nell’esecutivo i leader partitici e di trovare una sintensi nella nomina di figure che potessero essere il meno divisive possibili per gli altri membri della maggioranza, innescando una sorta di convergenza al centro che appare funzionale a tenere aperto un dialogo nella strategica sessione del Consiglio dei Ministri e che deve portare al confronto interno un governo che mira a tenere assieme una maggioranza ampia e estremamente eterogenea.

I partiti giocheranno la vera partita sul programma di governo e sulle road map per la sua strutturazione, cercando di essere il più complementari possibili alla “agenda Draghi” che verrà svelata nelle prossime settimane. A suo modo, la centralizzazione dei ministeri strategici attorno ai nomi vicini a Draghi e Mattarella e la composizione partitica dell’esecutivo offre spazi per la mediazone parlamentare e per la riconquista delle sue prerogative da parte della politica. Quando un esecutivo, sulla carta, vanta un sostegno politico che va da Laura Boldrini a Matteo Salvini, da Stefano Fassina a Maria Elena Boschi, è chiaro che la sana dialettica e il confronto tra opposti possono fornire una Stella Polare ideale per risolvere problemi e elaborare strategie. Si potrebbe leggere questa dinamica come un appello alla responsabilità dei partiti, dunque, a giocare sui due fronti della partecipazione all’esecutivo e dell’elaborazione parlamentare la loro strategia istituzionale.

Le stelle polari della “dottrina Mattarella”

Infine, la scelta dei nomi da parte di Draghi segnala che il confronto col Quirinale è avvenuto a tutto campo anche per presidiare le “stelle polari” della visione internazionale del Presidente della Repubblica, l’ancoraggio atlantico che Draghi appare destinato a mantenere e il confronto diretto con i Paesi-guida dell’Unione Europea sui dossier più importanti in materia politico-economica.

Sul primo fronte, non sfuggirà agli osservatori il ruolo giocato dalla presenza nel governo del felpato Guerini, esponente di massimo prestigio della corrente più atlantista del Pd e garanzia della solidità dei legami col Pentagono, ma anche di Giancarlo Giorgetti, che del posizionamento saldo del Carroccio nel campo occidentale ha fatto la missione del suo ruolo di responsabile Esteri della Lega. Anche Cingolani, venendo da Leonardo, testimonia il peso che l’industria della Difesa, che l’ex Finmeccanica presidia nel sistema-Paese, ha per i legami transatlantici e le sue conseguenze politiche.

Sul fronte dei legami con l’Europa, premettiamo che non riteniamo corretto ritenere la nascita del governo Draghi come la vittoria dell’europeismo su un generico e non qualificabile “antieuropeismo”. “La nascita del nuovo governo Draghi ha dimostrato invece il loro superamento. E non perché una categoria ha prevalso sull’altra”, spiega il giornalista Mauro Indelicato, “il nuovo governo non sarà né europeista, per come questo termine veniva concepito nella passata maggioranza giallorossa, né anti europeista, per come questa dicitura veniva usata nei mesi della maggioranza gialloverde. È solo un esecutivo nato all’ombra di un conclamato fallimento di una classe dirigente incapace, negli ultimi anni soprattutto, di saper stare nell’arena politica”. Più che l’Europa, sono i partner del Vecchio Continente, Francia e Germania, quelli con cui il confronto deve continuare ad essere serrato e attivo, nell’ottica di Mattarella, e non a caso i maggiori sponsor a livello europeo di Draghi nei confronti del Quirinale, che ha mentenuto attiva la sua diplomazia personale negli ultimi mesi, sono da individuare proprio nei governi di Emmanuel Macron e Angela Merkel piuttosto che nelle burocrazie di Bruxelles. Su questo fronte, oltre a scelte come quella di Franco per il Mef, è interessante vagliare l’ingresso nel governo dei leghisti che faranno compagnia a Giorgetti, Erika Stefani (esponente della Lega zaiana del Veneto che guarda alla Germania) e il citato Garavaglia (“colonnello” di quel partito del Nord che ha spinto per il Sì a Draghi e guarda all’ingresso nel Ppe per il Carroccio).

C’è molto della moral suasion presidenziale e un’impronta non secondaria di Mattarella nei nomi e nelle scelte degli uomini che faranno compagnia a Draghi nella sua avventura di governo. Le sfide da vincere sono immani e, da italiani, auguriamo al nuovo esecutivo buon lavoro, pur mantenendoci esplicitamente laici e distaccati nel giudizio e nel commento: dai fatti giudicheremo questo governo che nasce sotto il segno dell’iniziativa del Quirinale e inaugura una nuova fase, che porta sempre più vicino al colle più alto della Repubblica il controllo sui processi decisionali delle componenti profonde dello Stato e rende Palazzo Chigi una sua vera e propria “emanazione”. Un tema che rende ancor più bollente il corollario di medio periodo della convergenza politica su Draghi in questa fase: la corsa alla scelta del successore di Mattarella, per la cui concretizzazione manca meno di un anno. E che alla luce di quanto avvenuto ultimamente appare la partita più importante per la politica dopo le sfide della pandemia e della crisi economica cui Draghi dovrà far fronte.

Foto: Governo.it




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