lunedì 15 maggio 2023 - Enrico Campofreda

Turchia spaccata, per ora senza presidente

Per avere il nuovo presidente la Turchia dovrà attendere il 28 maggio. Stanotte né Erdoğan né lo sfidante Kiliçdaroğlu hanno superato il 50% di preferenze. La voglia di conservazione e il desiderio di cambiamento si sono fronteggiati dentro e fuori dai seggi. 

Come avevano fatto per l’intera, lunga, combattuta, partecipatissima campagna elettorale vissuta a suon di slogan (“uomo giusto al momento giusto” e “te lo prometto“), programmi faraonici e liste della spesa, rispettive platee che spaccano il Paese coi simboli delle quattro dita di Rabaa per l’Akp e le mani a forma di cuore per i sostenitori del politico del Chp. Le oceaniche adunate dei giorni scorsi sono state l’annuncio d’una partecipazione al voto fra le più alte della storia nazionale, del resto l’appuntamento è storico, non solo per il centenario della nazione. Sfiora il 90%. Partecipata in maniera trasversale, coi cinque milioni di neo votanti ed elettori anziani che non mollano il seggio a cento e più anni. All’apertura dei seggi emittenti nazionali ed estere hanno puntato l’obiettivo su Gulu Dogan. Se lo merita. A 112 anni è voluta andare di persona a infilare la scheda nell’urna, sostenendo di star bene e non aver bisogno dei funzionari, che per nonnetti e disabili raccolgono il voto nelle abitazioni. E’ accaduto a Gümüşhane, un centinaio di chilometri a sud di Trebisonda sul mar Nero.

A un paio d’ore dalla chiusura dei seggi Erdoğan è dato al 52%, Kiliçdaroğlu dieci punti di percentuale sotto. Immediatamente il sindaco di Istanbul İmamoğlu, vice del candidato repubblicano nell’Alleanza Nazionale che s’oppone all’Alleanza della Repubblica (Akp, Mhp e spiccioli dell’islamismo conservatore) accusa l’agenzia Anadolu di celare i voti dell’opposizione. Da parte sua Kiliçdaroğlu twitta: Öndeyiz, siamo avanti. Desiderio o realtà bisognerà aspettare. Passano altre due ore e alle 22:30 di Ankara il margine è ritoccato: il repubblicano supera il 44% mentre il presidente uscente, nonostante i ventitré milioni e mezzo di consensi è a un soffio sopra il 50%.

Poi quel soffio s’affievolisce la percentuale cala: 49.7% contro i 44.6% dello sfidante. C’è il terzo incomodo, Sinan Oǧan (ricordatevi questo nome perché i suoi due milioni e settecentomila consensi faranno la differenza fra due settimane) attestato al 5.3% che condiziona le percentuali altrui. Ma paradosso dei paradossi se nella notte, per ora manca circa l’8% di seggi, le percentuali resteranno quelle indicate, a impedire la rielezione del presidente uscente è İnce, il candidato ritiratosi giovedì scorso, che comunque raccoglie lo 0.46%. Non nel voto odierno, non poteva farlo, ma in quello all’estero avvenuto prima del ritiro. Il Consiglio Elettorale Supremo ha deciso di conteggiare i voti ricevuti nel precedente passaggio e quei voti abbassano la percentuale di ciascun concorrente. Le proiezioni delle politiche vedono conservare la maggioranza all’alleanza Akp-Mhp che dovrebbero avere rispettivamente 267 seggi (nel 2018 l’Akp contava 295 deputati) e 51 seggi (i nazionalisti ne avevano 49).

 
Cinque deputati li strappa Refah Partisi il gruppo di Fatih Erbakan per un totale di 323 seggi di maggioranza relativa (49.95%). Sul fronte opposto 169 i deputati per Chp (ne contava 146) e 45 per İyi della Akşner, che incamera due deputati in più di cinque anni fa e risulta l’unica dei sei gruppi dell’alleanza d’opposizione a superare la soglia di sbarramento del 7%. Il blocco dell’est s’è orientato sull’aggregazione della Sinistra Verde e ottiene 60 deputati (come Hdp ne aveva 67), unita al Tip (Türkiya İşçi Partisi) con 3 seggi porta nel Meclis rappresentati dai collegi di Ağri, Van, Hakkari, Mardin, Batman, Diyarbakır e altre province. Come aveva promesso la leadership del partito kurdo, questa componente non avrà fatto mancare il sostegno a Kiliçdaroğlu e altrettanto lui s’aspetta per il ballottaggio. Inutile dire che i dati relativi su cui ragionano tutti i media, e anche noi, saranno verificati dal Collegio Elettorale Supremo. Se la sfida per la presidenza resta apertissima, la fisionomia del Parlamento per i prossimi anni non consentirà la riforma del presidenzialismo che aveva in mente il cosiddetto Gandhi turco a meno che non ci saranno tanti Davutoğlu e Babacan pronti a cambiare bandiera. Fino a quel momento, se eletto, sarà lui l’uomo solo al comando. 
 

Enrico Campofreda




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