giovedì 9 settembre 2021 - Enrico Campofreda

Torture talebane

Chissà se alla prossima conferenza stampa mostrerà la stessa flemma Zabihullah Mujahid, già portavoce talebano e ora ministro della Cultura e della Comunicazione, nel dover spiegare quanto i suoi compari mettono in atto: ferreo divieto per le donne di esercitare l’arte musicale e quella corporea attraverso lo sport.

Lui all’unica giornalista di sesso femminile, ammessa all’incontro con la stampa ormai diventato storico dello scorso 17 agosto, che chiedeva quale sarebbe stato il futuro lavorativo e civile per le donne rispondeva a mezza bocca che avrebbero potuto continuare a lavorare e studiare, secondo i princìpi della Shari’a. Princìpi che i talebani rivisitano secondo il più fanatico fondamentalismo delle scuole coraniche del deobandismo, con cui reintroducono limitazioni, esclusioni, accompagnamenti con mahram, minacce e repressioni. A neppure un mese dalle bandiere bianche sui Palazzi di Kabul. A tre giorni dall’insediamento d’un governo nient’affatto aperto a figure della società civile, oltre che ai volponi del passato regime, che comunque qualcuno fra i turbanti avrebbe accettato. Ma l’esecutivo del compromesso benedetto dal pakistano Hameed, mette in prima fila uomini e ideali estremi seppure mostra di barcamenarsi su un doppio binario: ricerca di accoglienza e benevolenza internazionale e volto casalingo severo per stroncare da subito proteste che potrebbero crescere. Gli sparuti manipoli di donne senza paura dei giorni scorsi, iniziano a diventare gruppi di centinaia di persone con cartelli, striscioni, manifestazioni di strada che accusano i taliban d’intolleranza e oscurantismo. La risposta sempre più dura appare in linea con la volontà coercitiva del secondo Emirato, che prelude a violenza aperta verso chiunque ponga diversità di vedute. Una violenza che i giornalisti afghani hanno già impressa a suon di frusta sulla pelle e di botte sul corpo, inferti da picchiatori-torturatori coranici, affinché ciascuno si metta in testa di non poter descrivere, fotografare, filmare gli slogan delle donne coraggiose e rabbiose contro l’oscurantismo in cammino sulla propria esistenza. Gli uomini pubblici in turbante stabiliscono questo duplice comportamento: affabile accettazione per i reporter stranieri, tornati numerosi sulle polverose strade afghane. Legnate e minacce di morte ai cronisti locali che non dovranno aiutare i colleghi né collaborare coi media mondiali. Non dovranno raccontare restrizioni e pene quotidiane d’una popolazione minacciata e vessata o impaurita e acquiescente, l’epilogo può essere la morte. 

Enrico Campofreda




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