giovedì 10 agosto 2017 - Enrico Campofreda

Taliban, teoria e prassi del jihad afghano (seconda parte)

Fondamentalismo pre-talebano - Mentre i progenitori dello Stato Islamico, come Al-Zarqawi hanno speso anni per complottare, schematizzare, sognare una società islamica, non c’era alcun talib in quella preistoria. (Leggi qui la prima parte)

 Il network deobandi-sufi, in cui i talebani erano collocati, ha una lungo processo di attivismo politico specie in Pakistan, dove gli ulema hanno avuto una funzione di lotta anticoloniale. I mujahhedin, con cui i taliban si sono rapportati nella resistenza all’invasione russa, hanno teorizzato uno Stato islamico, ma fra i turbanti solo una minoranza pensava a questa soluzione, molti ipotizzavano addirittura il ritorno d’un re alla fine di quel jihad. E’ una sorta di paradosso il loro: volevano rovesciare il vecchio ordine, forgiare uno Stato, puntare a un processo che spingesse le prospettive lontano ma restavano piuttosto defilati. Anzi, durante la prima fase della guerra civile (1992-94), che contrappone l’un contro l’altro diversi mujahhedin diventati Signori della guerra, parecchi talebani rientrarono nelle madrase o ripararono nei villaggi del sud del Paese. Preferivano restare neutrali davanti ai comandanti-banditi intenti a spartirsi la scena di sangue sulla pelle della popolazione. I partiti islamisti che si dividevano vari distretti afghani si rapportavano a usi e tradizioni rurali e tribali con un andamento alternato: talvolta li facevano propri, altre li contrastavano attuando forme di “rieducazione” e, quando queste non bastavano, introducevano un’aperta coercizione. Un esempio: la gente di Herat aveva l’abitudine di allevare piccioni, l’usanza venne cancellata in breve tempo a seguito d’un drastico divieto. Furono pure proibite le performances musicali, solo per un periodo vennero ammesse nei matrimoni, ma non durò molto.

Coscienza critica - L’Ufficio delle virtù, istituito sotto la presidenza di Rabbani (1992-1996) vigilava sui comportamenti popolari. E le norme rivolte alle donne, che nel periodo di governo talebano (1996-2001) diventeranno rigida prassi: come il divieto d’uscire senza l’accompagnamento di parenti, la negazione di un abbigliamento attrattivo usando gioielli e profumi, l’impossibilità di rivolgersi a stranieri, parlare a voce alta in pubblico, erano tutti già presenti nella quotidianità diffusa, non solo nei villaggi, ovunque i comandanti fondamentalisti si scontrassero. Assieme a queste proibizioni si attuavano misure drastiche verso ladri e omosessuali, forme d’oppressione nei confronti di giovani che venivano rasati (gesto che nella mentalità tribale aveva un valore di evirazione) per diventare oggetti sessuali delle gang concorrenti. Dal canto loro i talib si davano un’aria da paladini quando, in mezzo alla guerra civile, compivano azioni contro i cosiddetti pataks, uomini armati che ai checkpoint depredavano chi transitava. L’iniziativa rientrava nella propaganda per pacificare il Paese finito nel caos dei conflitti interni, e a un certo punto i talebani cominciarono a reclamare sicurezza e l’assoluta necessità di costruire un “vero Islam”. Il progetto vedeva gli studenti coranici esaltare le radici del ‘villaggio pashtun’ come ideale di purezza. Dall’aspetto esteriore ai pensieri interiori tutto doveva rientrare in una specifica filosofia di vita che conservava o ripescava gli antichi costumi. Dunque barbe lunghe maschili e burqa femminili, demonizzazione delle innovazioni tecnologiche e anche dell’abbigliamento, ad esempio il vezzo di allacciare i turbanti. Sul fronte ideologico i talebani puntavano a coniugare il rispetto della tradizione con le componenti epistemiologica, disciplinare e strategica, reagivano contro quello che si può definire il modernismo nell’Islam e puntavano a limitare le influenze del wahhabismo salafita nelle varie province.

Portabandiera della lotta all’oppressione - La fase che precedette la loro presa del potere vide politici e religiosi della famiglia talebana condurre battaglie contro le posizioni dei vari Rabbani, Sayyaf, Hekmatyar che venivano considerati diffusori di idee fuorvianti; i testi su cui quest’ultimi s’erano politicamente formati (molti della Fratellanza Musulmana) furono proibiti. La polemica viaggiava sul terreno del pensiero e della linea, i talib si facevano portabandiera della lotta all’oppressione, che non riguardava solo l’occupazione straniera, ma criticava ferocemente la corruzione dei governi, quelli fantoccio e quelli sedicenti islamisti. Esaminava il problema della giustizia sociale contro la depravazione della ricchezza e il lusso, considerato estraneo ai princìpi della Shari’a. Toccava argomenti che possono apparire futili, sulla presenza nella vita quotidiana dei cani, per finire su aspetti nient’affatto secondari che dall’estetica giungevano all’arte, condannata all’epoca dai miliziani coranici perché accusata di imitare la creazione divina. Da lì le punizioni lanciate contro gli artisti, sino alla distruzione di opere-simbolo come i Buddha di Bamiyan. La teoria della legge applicata con la punizione esemplare, pur nel suo contorno coercitivo segue un percorso “morale” e svela giustificazioni da “meno peggio” nei casi in cui i responsabili delle ritorsioni minimizzano il rischio di scenari peggiori, per cui al confronto delle stragi della guerra civile, le esecuzioni risulterebbero accettabili… Esistono concettualizzazioni sul tema. Ad esempio, la battaglia per estirpare il gioco d’azzardo punta non solo a eliminare il vizio bensì a stroncare l’abilitazione del vizio. Se l’atto, non l’intento, era soggetto alla disciplina, diventava più sicuro rimuovere le condizioni sotto cui l’azione illecita poteva accadere.

Il potere della frusta - Sul ‘potere della frusta’ due figure centrali del movimento talebano, il celebrato mullah Omar e il mullah Turabi (che per tutto un periodo collaborò con lui, vestendo i panni di ministro della Giustizia) diedero interpretazioni diverse. Il primo sosteneva il valore ‘educativo’ del rigore, Turabi a un certo punto propose di bloccare le punizioni pubbliche. Alle divergenze pare contribuisse una certa lotta per il potere presente fra i due chierici impegnati in politica, e a ben poco servì anche la parentela stabilitasi per acquisiti matrimoni. Antiche notizie ricordano come nel 1995, durante l’assedio di Kabul, Turabi cercò di convincere l’altro mullah a negoziare con l’Alleanza del Nord. Omar oppose sdegnato rifiuto, leggendo nella proposta un tentativo per screditarlo e farlo rimuovere dal ruolo di leader. Di fatto durante il quinquennio di regime talebano la polizia religiosa ebbe un ruolo centrale nell’orientare la vita della popolazione e - a detta degli autori della ricerca Gopal e van Linschoten - la funzione partiva da aspetti esteriori e comportamentali, entrava nel terreno della corretta via islamica, ma puntava direttamente a un controllo sociale delle masse. Accreditandosi come guida spirituale il mullah Omar si autoproclamò “comandante della fede” (amir ul-mumenin). Nel dare corpo alla politica amministrativa il governo talebano dovette fare i conti con questioni finanziarie e mentre condannava il sistema mondiale delle banche, tranne cercare scappatoie riguardo alla sua Banca Centrale, si poneva domande sulla raccolta di denaro attraverso le tasse. Sono quest’ultime in contrasto col santo princìpio della zakat? Questione rimasta insoluta, forse, per la breve durata dell’esperienza di potere dei turbanti.

Caduta e risalita - Mentre tuttora gli analisti s’interrogano sulla volontà talebana rivolta più che d’inseguire un’arte di governo al desiderio di legittimarlo, all’interno e all’esterno della Umma, in casa quell’esperienza venne messa in crisi da due fattori. Il primo risultava interno all’internazionale combattente, e qui spicca il rifiuto della resa a Bin Laden (l’esatto contrario, dunque, della teoria della sua protezione sulle montagne fatte bombardare da George W. Bush all’avvio dell’Enduring Freedom). Il secondo riguardava il malcontento della popolazione contro i divieti imposti alla coltivazione dell’oppio e per l’obbligo della coscrizione militare. Il voltafaccia della gente sfociò in un profondo odio. Ma non durò a lungo: sono bastati tre anni di operazioni militari Nato, le stragi della citata Enduring Freedom e la sostituzione con l’Isaf Mission, (dal 2001 al 2004), quindi l’introduzione del governo servile e corrotto di Karzai che ha gradualmente cooptato diversi Signori della guerra, perché agli occhi di tanti afghani i talib potessero ripresentarsi come gli unici difensori del suolo patrio e rispolverare le funzioni di guardiani della tradizione e della nazione. Nella propaganda talebana le similitudini fra il 1980 e il 2001 si sono ripetute incessantemente: lo sfacciato ateismo, la repressione verso gli ulema in tante province rurali hanno offerto un quadro cui nuove generazioni, dal 2007 in poi, hanno prestato ascolto. “Calpestare la cultura afghana, distruggere il sistema islamico” sono refrain che ritornano in una propaganda aperta anche all’uso di altri mezzi, un tempo osteggiati dall’ortodossia talebana per i conflitti ideologici con l’Islam modernista. E ancora “la Crociata occidentale contro l’Islam”. Sostenendo una battaglia contro questi pericoli i militanti coranici hanno rilanciato il jihad afghano. “Questa non è una guerra ordinaria, è una guerra santa, volta alla difesa dei nostri valori culturali, dell’identità e della libertàSe tale è il prezzo dello sviluppo e del nostro sangue, continueremo a combattere” afferma uno studente coranico diventato comandante sul campo.

Identità, libertà, sangue e flessibilità - E dal periodo immediatamente successivo alla caduta del regime, quand’era ancora vivo e vegeto il deus ex machina del movimento, mullah Omar, i talebani rilanciano il proprio disegno incentrato su resistenza all’occupazione militare e lotta ai governanti corrotti. Primo passo: raccogliere e formare nuovi combattenti, ma con orizzonti più ampi del precedente periodo e un’attenzione alle trasformazioni, riguardante pure quella tecnologica prima rifiutata e nel caso della telefonìa mobile (20 milioni di afghani usano i telefoni cellulari) ora utilizzata per la propaganda. Da anni i talib reclutano giovani che rientrano dai campi profughi pakistani e dal territorio autonomo confinante (Fata), alzano il livello dello scontro chiedendo ai miliziani anche il martirio che, dopo la guerra irachena, è diventato pratica diffusa. Ne trovano giustificazione interpretando alcuni passi del Corano. Il mullah Omar era contrario alla scelta, non voleva perdere uomini, ma la pratica s’è diffusa e con essa le stragi, anche di civili. Pur mirando a un proprio credo ideologico-politico con cui s’oppongono alle tattiche di Jamaat Broterhood, considerate forze riformiste, i talebani del nuovo corso sono più flessibili alla circolazione di idee. Ora accettano confronti con altre componenti islamiche e, in alcuni documenti, ammettono anche l’aiuto fra non musulmani. Non pongono limiti a tatticismi se il ritorno può essere utile alla causa. Riflessioni riprese da un loro report, trattano di taluni impiegati dell’amministrazione del Wardak. “Devono essere considerati infedeli?” è la domanda posta a un mullah comunicatore. La risposta è affermativa, se, come si presume, sono pagati dagli invasori che notoriamente non danno denaro senza contropartite. Eppure essi potrebbero mutare indirizzo e collaborare coi ribelli… Ora la linea è meno tranciante e più possibilista. Bastone e carota vengono lanciati secondo princìpi autoctoni che, però, gli stessi occidentali praticano a proprio vantaggio. Quando occorre la mano pesante della vendetta, i talib ripropongono un volto integerrimo, come accade a quei khan, malek e capi tribù che mantengono cordiali rapporti coi governativi e dunque vengono puniti. Takfirismo è il neologismo coniato per comportamenti giudicati contrari alla morale islamica e per questo considerati empi. I tatticismi esasperano la visione del fine che giustifica i mezzi, tantoché il network talebano, già diviso in tutta la fase post-governativa esaminata nella ricerca, vive, specie dopo la dipartita del mullah Omar, ulteriori frazionamenti.

Tatticismi - Si possono incontrare gruppi di insorgenti che collaborano con chi pratica rapimenti, estorsioni, furti, traffico d’oppio, prassi un tempo inconcepibile per il rigore talebano. Ma i veri tatticismi sono altri. Riguardano l’analisi, che nel mondo islamico individua componenti riformiste e rivoluzionarie e ha condotto il network a osservare e dialogare con entrambi i fronti. Ne deriva una sua collocazione sulla sponda rivoluzionaria d’un jihadismo che non dev’essere necessariamente transnazionale. Proprio qui sta la differenza con gli attori dello Stato Islamico: i taliban afghani pur parlando di Umma non conducono offensive esterne ai propri confini. Si pongono in un’ottica nazionale, proponendosi come movimento patriottico volto a riunire la comunità degli afghani indipendentemente da tribù ed etnìe d’appartenenza. Sembra abbandonato un cavallo di battaglia del movimento che collocava la maggioranza pashtun al centro del progetto dell’Emirato. Così il nazionalismo resta, ma si rivolge a tutta la popolazione. E i reiterati attacchi che continuano a colpire le minoranze interne, soprattutto gli hazara sciiti, paiono manovrati da quei dissidenti che hanno creato un cartello con la sigla del Daesh. Certo i talib delle Fata e in rapporto col Pakistan, come i Tehreek, autori di molte stragi da Peshawar a Lahore, seguono logiche differenti e opposte i cui sviluppi, con e contro i turbanti afghani, sono tutte da verificare. Comunque agli occhi dei politologi si dipana un orizzonte diverso dal ventennio precedente. Con una costante: la guerra può proseguire al di là della presenza delle truppe d’occupazione. Un ulema vicino ai taliban ha definito l’Afghanistan “la casa della guerra” (dar ul-harb) perché lì si reitera attraverso lo Stato-fantoccio un modello di servilismo all’Occidente. E da un paio d’anni, nonostante il copioso ritiro dei marines statunitensi (ne sono rimasti circa diecimila), gli attacchi al governo Ghani sono cresciuti notevolmente. Tutto questo è destinato a proseguire, e una delle ipotesi che ha ripreso fiato è la via delle trattative, dell’accordo coi resistenti, del loro trascinamento nel processo politico in corso. Un espediente, non nuovo, per contrastare il tatticismo dei resistenti. Sebbene quest’ultimi la partita sembrano volerla giocare seguendo tutta la distruttiva irregolarità che i nemici cangianti nei decenni hanno introdotto.

(2 - fine)

 




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