venerdì 24 settembre 2021 - Enrico Campofreda

Taliban, risse, egemonia, realismo politico

Fra i taliban le divisioni esistono, lo si sapeva da tempo. Al di là delle presunte sparatorie di Palazzo, delle voci del ferimento del mullah Baradar poi ricomparso in pubblico con l’alibi d’un viaggio a motivazione della sua temporanea assenza, i combattenti intransigenti sostengono di avere un debito col Paese, la sua gente e la loro stessa organizzazione islamica per i venti anni di guerriglia sostenuti. 

E vogliono esser ripagati. Taluni studiosi della galassia coranica confermano l’esistenza d’una profonda spaccatura fra alcuni gruppi che si sviluppa fra i miliziani e prosegue sul territorio, compresi i luoghi d’origine e le famiglie di provenienza dei guerriglieri. Ex esponenti di quella che fu l’Army National Forces lamentano azioni, coordinate e anche singole, di studenti coranici armati che sequestrano loro auto e pure abitazioni. Tutto ciò nonostante gli annunci cantilenanti della prim’ora: non ci saranno soprusi verso chi vestiva la divisa nel precedente governo. Proprio Zabihullah Mujahid - volto ufficiale talebano nella famosa conferenza stampa del 17 agosto scorso - aveva enfatizzato le proprie differenze dalla corrotta conduzione del collaborazionista Ghani. Ma al di là della frenesia dei giovani combattenti, contenuti nella possibile vendetta cruenta contro chi gli sparava addosso se non fino a un mese prima perlomeno fino a un anno fa, viste “le buone maniere di facciata” con cui l’Esecutivo dei turbanti non vuole turbare il mondo su un territorio tornato all’Emirato, i combattenti chiedono almeno di farsi un ‘sacrosanto bottino’.

Quello copioso l’hanno messo al sicuro Ghani e i suoi accoliti, come i consumati signoroni della guerra amici fuggiti via (Dostum) oppure i nemici rimasti in loco (Hekmatyar). Ma il talib sa che anche l’ex ufficialetto ha il suo piccolo tesoro. Fatto di gabelle che richiedeva in taluni check-point. Il miliziano lo sa perché lui stesso l’ha preteso, e ricevuto, nei posti di blocco creati nelle aree un tempo controllate. E’ il male comune d’un Paese che non cambia perché dipendente dall’assistenza interessata, un tempo dell’Occidente in futuro di chissà chi altro. Gli Stati Uniti ritirandosi hanno congelato nove miliardi di dollari di fondi internazionali necessari all’immediata sopravvivenza economica della nazione, e nell’aria viziata dalle citate tare il vizio soggettivo continua a rimanere radicato. A spargere sale sulle spaccature politiche interne sono i nomi noti del radicalismo: mullah Yaqoob, il figlio di Omar, diventato da comandante di punta delle offensive di maggio a ministro della Difesa del secondo Emirato. E ovviamente Sirajuddin Haqqani. Seppure quest’ultimo abbia obiettivi più ambiziosi che taglieggiare gli ex nemici. Ora i suoi avversari diretti sono turbanti come lui: appunto Baradar e il ministro degli Esteri Mohammad Stanikzai. Quest’ultimo, originario della provincia di Logar, quando l’Armata Rossa occupava l’Afghanistan faceva l’apprendistato nell’Accademia militare indiana, quindi partecipò alla Jihad antisovietica. E’ un uomo d’arme, ma non ha mai ecceduto nel militarismo, né nel fondamentalismo confessionale. La coppia rappresenta il pilastro diplomatico dell’attuale gruppo di potere, che diversi media hanno tacciato di moderatismo.

Comunque accanto alle etichette distribuite o guadagnate, parlano intenti e fatti. Più d’uno dei leader dell’area di Kandahar non ha gradito la visita del potentato dell’Isi pakistano Hameed che ha “mediato” a suo modo, contenendo le pretese degli Haqqani e al tempo stesso offrendo al clan una sponda esplicita, superiore a quella lanciata per anni sottotraccia nei territori delle Fata, dove tanta guerriglia talebana ripara e si nutre di sponsor. Anche un altro leader coranico, Mohammad Mobeen, ritiene che il miglior futuro d’un governo, tuttora provvisorio, potrà essere dettato da una formula maggiormente inclusiva. E se qualche esemplare della vecchia guardia dell’Afghanistan messo in soffitta – Karzai, Abdullah – risulta a tutti gli effetti impresentabile e confligge col rigore anti-Occidentale, altri totem d’un triste passato devono in qualche modo rientrare in gioco. Uno potrebbe essere Hekmatyar, fondamentalista quanto basta così da accontentare i più intransigenti della famiglia talebana, e soggetto già in diretto contatto col potere iraniano. Questa sponda, finora assai marginale, sostiene una rappresentanza etnica ampia: non solo gli hazara a maggioranza sciita, anche uzbeki e tajiki. In tal modo quel che si vorrebbe far uscire dalla porta, l’ingerenza pakistana, rientrerebbe da due finestre: una aperta verso i cavalli di Troia di Islamabad, con gli uomini dell’Isi in prima fila, l’altra coi jolly di Teheran. Sebbene l’intera rissosa e incontentabile famiglia talebana i conti dovrà farli con le schegge più incontrollabili che flirtano con lo Stato Islamico del Khorasan e gli offrono uomini, fanatica fede, confronto e conforto.

Enrico Campofreda




Lasciare un commento