martedì 29 gennaio 2019 - Enrico Campofreda

Talebani in marcia verso il governo, tremano le donne

L’inviato speciale Khalilzad - dopo sei giorni di fitti colloqui in Qatar coi talebani e nella possibilità d’un vicino accordo, su indicazione del suo boss il Segretario di Stato statunitense Mike Pompeo - è atterrato a Kabul.

 Deve parlare col presidente Ghani e convincerlo che ciò che i taliban vogliono: escluderlo da qualsiasi funzione attiva in merito al possibile accordo, sia un bene per l’intero Paese. Cesserebbe, almeno sulla carta, un conflitto durato 17 anni e tre mesi, sebbene resti ancora aperta la questione del ritiro delle truppe straniere.

 Un altro punto su cui la guerriglia non transige e che vede da ieri l’Italia possibilista con la ministra Trenta. Ma certe decisioni non si prendono a Roma, sarà Washington a valutare la chiusura del Resolute support. Ai talebani risulta più praticabile non fornire aiuti sul proprio territorio al jihadismo di Qaeda e dell’Isis, seppure sul tema devono pronunciarsi anche i gruppi fratelli e rivali sostenuti dal Pakistan. Comunque per questa concessione i turbanti richiedono l’ingresso di propri rappresentanti in un governo a interim, notizia riferita da fonti talebane e non confermata da nessun portavoce americano. Gli informati sostengono: ancora per poco. E’ sicuramente questo l’ennesimo boccone avvelenato che Khalilzad offre a un presidente fantoccio, sempre più bistrattato dalla Casa Bianca.

Il faccia a faccia di questi giorni a Kabul potrà fornire ai colloquianti di Doha, che hanno già fissato un nuovo appuntamento per il 25 febbraio, il polso della situazione nei palazzi della capitale afghana, non a caso in questa fase risparmiati da autobombe e kamikaze. Ma la tregua potrebbe non durare a lungo. O Ghani si sottometterà del tutto alla strategia tratteggiata dagli Usa, con tanto di sua personale marginalizzazione e umiliazione o probabilmente torneranno gli assalti nel cuore della città, anche in quella maggiormente vigilata. Del resto la parte talebana più intransigente prosegue le offensive in periferia e punta a firmare un accordo di pace col massimo controllo territoriale. Attualmente è presente nella metà delle province, e il controllo tende a crescere e vuole crescere. Washington ha fatto capire a Ghani che il patto di pacificazione è alternativo alle elezioni. E il presidente, che puntava a rilanciare il suo incarico in occasione del rinnovo elettorale, non ha davanti a sé margini di trattativa, inviso ai taliban e snobbato dagli americàn. In un recente viaggio estero, con conferenza stampa in Svizzera, ha dovuto ammettere che dall’inizio della sua presidenza (2014) hanno perso la vita in agguati e attentati ben 45.000 fra militari e poliziotti.

Chi naturalmente si dispera per quanto che appare all’orizzonte sono le donne, anche quelle note che siedono in Parlamento. Vedono che la regressione è nell’aria. Finora le pochissime attive in ruoli professionali, negli spostamenti, oltre a vestire il tradizionale burqa, dovevano essere accompagnate da un maschio di famiglia. Per non parlare delle più elementari condizioni esistenziali, anche muoversi per andare al mercato prevedeva quel genere di scorta. Le cose potranno peggiorare. Già sono partite le lamentele di non fare del processo di pace un obiettivo da conseguire, ancora una volta sulla pelle delle donne. Ma chi può garantirlo? Non l’attuale governo messo ai margini dai due dialogati e sempre servile coi fondamentalisti. Gli stessi uomini favorevoli al dialogo che lavorano con lo staff di Khalilzad non s’occupano certo di diritti e diritti di genere. Dovrebbero farlo i talebani folgorati sulla via di Kabul? E’ difficile pensarlo. Così il ritorno al passato è dietro ogni angolo, seppure non si dimentica come sotto Karzai e Ghani le limitazioni alle scuole per bambine e ragazze sono stati frequenti, l’hanno testimoniato per anni ong locali come Afceco. Mentre le case rifugio di Hawca per donne abusate subivano persecuzioni dai democratici governi locali, sostenuti dall’Occidente.




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