martedì 23 giugno 2020 - Riccardo Noury - Amnesty International

Sara, la rifugiata che portò con sé in esilio la tortura

“Ai miei fratelli e alle mie sorelle. Ho tentato di trovare riscatto e non ci sono riuscita, perdonatemi. Ai miei amici. L’esperienza è stata dura e sono troppo debole per resistere. Al mondo. Sei stato estremamente crudele, ma io perdono”.

Queste sono le parole con cui Sara Hegazy si è congedata da quel “mondo estremamente crudele”, il 14 giugno, nel suo esilio di Toronto, in Canada.

Sara era una rifugiata. Aveva lasciato il suo paese, l’Egitto, dopo il carcere e la tortura.

Sara era una gioiosa esponente della comunità Lgbtq egiziana. Gioiosa, nonostante le persecuzioni subite da parte di un potere che, pur non punendo esplicitamente l’omosessualità, non mancava di stigmatizzarne i desideri e le passioni ricorrendo spesso alle accuse di “depravazione”, “blasfemia”, “atti immorali” e “promozione della devianza sessuale”.

Il 22 settembre 2017, durante il concerto della band Mashrou’ Leila al Cairo, Sara e altri spettatori aprirono e sventolarono la bandiera arcobaleno. Venne arrestata e altri arresti seguirono nei giorni successivi.

Sara fu portata in una stazione di polizia dalle parti della moschea di Saida Zenab. Quando gli agenti annunciarono “è arrivata una lesbica” iniziò il massacro, cui presero parte agenti di polizia e anche donne in stato d’arresto per reati comuni: insulti, violenza sessuale, pestaggi.

Fu messa sotto inchiesta per “promozione della devianza sessuale e “depravazione”.

Dopo tre mesi, durante i quali venne nuovamente stuprata e torturata, fu rilasciata su cauzione. Ecco come lei stessa descrisse il periodo immediatamente successivo al carcere.

“Quando aprivo bocca balbettavo, in preda al terrore. Non riuscivo a uscire dalla mia camera. La memoria mi è venuta meno assai rapidamente. Ho evitato di parlare della mia prigionia, mi sono tenuta alla larga da ogni tipo di assembramento, ho cercato di non comparire nei media perché temevo di perdere facilmente la concentrazione e di sentirmi perduta, sopraffatta dal desiderio di silenzio. Tutto ciò è accaduto mentre perdevo speranza nelle cure. Perdevo la speranza di poter essere guarita. Questa è la violenza che mi è stata fatta dallo Stato, con la benedizione di una società ‘religiosa per sua stessa natura’”.

Per provare a dimenticare tutto, partì per il Canada dove ottenne asilo politico. Ma è raro che la tortura lasci in pace. Infatti, raggiunse Sara anche in un luogo in cui sembrava protetta.

“L’esilio è morire lontano”: sono le parole dello scrittore Atiq Rahimi, rifugiato politico in Francia.

 




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