martedì 2 giugno 2015 - Riccardo Noury - Amnesty International

Roma, tre settimane fa lo sgombero della “Comunità della pace”. Rifugiati ancora in strada

Il brutale sgombero dell’insediamento romano di ponte Mammolo chiamato “Comunità della pace”, finito anche sulle pagine del New York Times, fa sentire ancora le conseguenze, a tre settimane di distanza, nei confronti di decine di persone accampate in strada.

In quell’insediamento, su cui si è abbattuta la tanto invocata ruspa – questa volta ad opera del Comune di Roma – vivevano circa 400 persone, in buona parte rifugiati politici, molti dei quali provenienti dal Corno d’Africa. Negli ultimi tempi, vi si erano aggiunti migranti est-europei e latinoamericani nonché richiedenti asilo in transito, che non si erano fatti prendere le impronte all’arrivo in Italia per non incappare nelle maglie del regolamento Dublino III ed essere così costretti a chiedere il riconoscimento nel nostro paese.

C’erano case di fortuna, costruite a poco a poco nel corso degli anni, autogaranzia minima di sopravvivenza, un tetto sotto il quale rientrare (nel contesto di una crisi abitativa che, nella Capitale, riguarda stranieri come italiani) al termine di una giornata di lavoro, sempre cercato, a volte trovato, quasi mai pagato adeguatamente.

Come in altri casi di sgombero “si sapeva”, erano in corso negoziati e trattative informali in cui erano coinvolte le autorità comunali e le associazioni di volontariato che difendono i diritti dei rifugiati. Alla “Comunità della pace” era arrivato anche papa Francesco.

Il diritto internazionale prevede che uno sgombero, per non essere “forzato” ossia illegale, debba essere notificato a tutti gli interessati, per tempo, e che a questi ultimi debba essere fornito un alloggio alternativo adeguato.

Non è andata così, denunciano le persone sgomberate, molte delle quali hanno avuto due minuti di tempo per abbandonare l’insediamento. Altre sono uscite all’alba per andare al lavoro e al rientro hanno trovato solo macerie. Documenti personali, ricordi, vestiti, medicine sono finiti sotto la ruspa.

Decoro, degrado, allarme sanitario. Le ragioni fornite per giustificare gli sgomberi sono le solite: in fondo lo si fa per il “loro” bene. Ma dopo lo sgombero, cosa si fa per il “loro” bene?

L’intervento rapido promesso dall’assessora alle Politiche sociali Francesca Danese ha significato per alcuni una precaria ospitalità in dormitori e centri di assistenza. Un passo indietro, da una seppur precaria auto-organizzazione abitativa alla dipendenza, altrettanto precaria e in un clima di pesante ostilità.

Restano in strada, dall’11 maggio, decine di sgomberati, accampatisi nel piazzale antistante le macerie. Quali soluzioni degne e adeguate per loro?

All’orizzonte, intanto, si profila un altro sgombero: quello del centro d’accoglienza di via Scorticabove, dove si trovano attualmente oltre 100 rifugiati sudanesi. Dopo l’allarme lanciato dal presidente della Commissione straordinaria per i diritti umani del Senato, Luigi Manconi, l’operazione è stata rinviata a fine giugno.




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