Richard Dawkins è una risorsa o un ostacolo?
Nel mondo dell’attivismo ateo è nata, nei giorni scorsi, una discussione sulla figura di Richard Dawkins. Il biologo inglese è infatti incappato in un infortunio sulla sua pagina Twitter, facendo distinzioni ardite tra tipi di pedofilia e stupro.
Il risultato è che molti commentatori l’hanno criticato, e diversi mass media (Independent, Guardian, Huffington Post) hanno enfatizzato l’accaduto. Una precisazione pubblicata da Dawkins sul suo stesso sito non ha contribuito a rasserenare la situazione.
Reazioni si sono ovviamente avute anche all’interno dei più noti blog atei del mondo anglosassone. Kimberly Winston, la giornalista di Religion News Service che segue il settore della non credenza, le ha raccolte in un articolo in cui si è domandata, anche alla luce di altri passati inciampi di Dawkins, “se il famoso scienziato non è diventato più una passività che un’attività nel bilancio del movimento che egli stesso ha contribuito a creare”. E la risposta è spesso negativa, per tanti blogger: da Greta Christina ad Adam Lee, da Amanda Marcotte a Ophelia Benson.
Il sociologo dell’ateismo Phil Zuckerman ha sostenuto che Dawkins “incarna ogni cosa che la gente non ama degli atei: è molto compiaciuto, condiscendente ed emana uno sgradevole sdegno. Non sembra in grado di riconoscere gli aspetti positivi della religione, solo i cattivi. In questo senso non penso che sia di aiuto all’ateismo nell’ufficio pubbliche relazioni”. A difenderlo c’è il filosofo Daniel Dennett: “se anche qualcuno pensa che ogni tipo di stupro è ugualmente cattivo, non pensa forse che non sia altrettanto cattivo dell’omicidio? Così dicendo, sta forse giustificando l’omicidio? Se invece pensa che stupro e omicidio sono cattivi allo stesso modo, allora ha perso la bussola e non merita la nostra attenzione”.
È difficile non riconoscere a Richard Dawkins i suoi meriti. Il suo libro L’illusione di Dio è diventato il più grande bestseller ateo di tutti i tempi, contribuendo in modo determinante alla proliferazione di pubblicazioni che hanno dato vita al fenomeno che passa sotto il nome di new atheism. È condivisibile quanto ha scritto Hemant Mehta su Friendly Atheist: “occorre riconoscere che è un grande comunicatore quando ha la possibilità di esprimere compiutamente se stesso, cosa che ha fatto con i suoi libri durante tutta la sua carriera”. Su internet è più difficile, con milioni di occhi puntati e in particolare con i 140 caratteri di Twitter (anche ieri è nata una polemica su un suo messaggio con cui ha invitato ad abortire i down).
I cattolici hanno il papa, ritenuto infallibile in materia dottrinale. Gli atei non vogliono avere alcun papa e sanno benissimo che nessuno è infallibile. Tuttavia i mass media, abituati ad avere come riferimento i primi, traspongono pavlovianamente sui secondi le medesime caratteristiche. E da questo punto di vista, invece, avere Dawkins dipinto come “papa” è un ostacolo. La colpa non è però tanto di Dawkins, e a ben vedere non lo è nemmeno tanto dei giornalisti. Se il variegatissimo movimento dei non credenti vuol essere descritto con maggior precisione deve innanzitutto crescere quanto a numero e autorevolezza, in modo da avere dirigenti democraticamente eletti che siano rappresentativi anche agli occhi di chi osserva.
È un tema che è stato posto anche al recentissimoo World Humanist Congress di Oxford, a cui ha partecipato anche l’Uaar, ed è un tema ormai ineludibile, razionalmente parlando. Perché, oggi come oggi, qualunque critico aprioristico può cogliere fior da fiore dalle dichiarazioni di personaggi noti per il proprio ateismo trovandone una che collima con l’immagine negativa dell’ateismo che vuole tratteggiare. E si sa, è difficile trovare un solo argomento su cui gli atei sono tutti d’accordo. A parte, ovviamente, la non credenza nell’esistenza di dio.