mercoledì 13 luglio 2022 - Enrico Campofreda

Referendum tunisino, un sì per lo strapotere di Saïed

Rispondere sì, per uscire dalla marginalità e dall’esclusione” sostiene con piglio decisionista il presidente tunisino Saïed nel propagandare la sua personale Costituzione, sottoposta a referendum popolare il prossimo 25 luglio. Saïed non ha dubbi: ”Il primo compito dello Stato è realizzare l’integrazione.

 E questa verrà raggiunta coinvolgendo tutti nell’elaborazione della legislazione. Non c’è da temere per legalità e diritti se la legge primaria viene sottoposta a controllo popolare”. Per lui il controllo popolare consiste nell’assecondare il progetto con cui un anno fa ha preso “per mano” il Paese e dopo un po’ ha preso per il collo il Parlamento, impedendone le funzioni. I fedelissimi del suo disegno da golpe bianco, avallato dall’esercito e tanto simile al più noto percorso del presidente egiziano Sisi, hanno stilato una Carta costituzionale che, mentre mister Robocop proclama di non guardare indietro, torna al 1959 o giù di lì. Quando il sistema costituzionale puntava al culto della personalità, sotto Bourguiba, oppure all’autoritarismo con Ben Ali, di cui si conoscono i favori dell’Italia craxiana per la conquista del potere. L’odierna Costituzione, che i tunisini potranno approvare consta di 142 articoli, offre ampie facoltà al ruolo presidenziale, privilegiandolo rispetto al modello semi-presidenziale e semi-parlamentare scaturito dalla Carta del 2014. Eppure uno degli estensori, il docente di diritto Sadok Belaïd, denuncia che, negli ultimi giorni, il testo è mutato in peggio, subendo ritocchi a suo parere pericolosissimi. Fra questi la deresponsabilizzazione politica del Capo di Stato a fronte degli accresciuti poteri, e la mancanza d’una visione economica, sociale e di sviluppo della nazione nella Carta da votare. Tali riferimenti, presenti o meno, purtroppo restano sempre su carta senza tradursi in atti concreti. Tardivo grido di dolore di uno degli estensori o lacrime di coccodrillo? Il cinico Saïed per un’approvazione plebiscitaria - visto che fra gli elettori resta il fantasma dell’uomo che non deve chiedere mai, l’importante che sappia decidere - strizza d’occhio all’anima musulmana della nazione, che pure un decennio fa credeva in una conduzione alternativa tramite l’islamica Ennahda.

Il dibattuto articolo 5 della nuova Carta colloca la Tunisia nella grande Umma araba di fede e di lingua, quindi fa riferimento al Maghreb, un tutt’uno d’interessi e cultura (sic), poi però trattando questioni come i diritti, non occorre essere esperti per notare la contrazione di quelli sindacali e dei lavoratori, iniziando da uno strapazzato di diritto di sciopero. Eccola l’altra faccia della medaglia oppure quella reale, che i commentatori non schierati col clan presidenziale ricordavano sin dalle prime mosse d’un disegno unilaterale, non aperto ad altre componenti politiche, utile solo a offrire copertura legislativa al colpo di mano realizzato un anno fa, un assist alle élites speculatrici locali avallato dalla comunità internazionale. Un perfetto ritorno al passato, con buona pace dell’affranto Belaïd. Nelle due settimane che lo separano dal voto, l’elettore medio potrebbe tener presente ciò che dalla scorsa primavera i suoi occhi, pur di semplice consumatore, stanno osservando. La penuria alimentare ha toccato il fondo. Gli scaffali dei market sono sprovvisti degli stessi prodotti primari: olio vegetale, zucchero, farina, semola e cereali in genere. E’ la diretta conseguenza della crisi del settore scatenata dal conflitto ucraino, è il disorientamento che la distribuzione di queste materie prime, finora assicurate da Ucraina e Russia, stanno creando in tutto il nord-Africa. Ma la situazione è disperante perché le garanzie dell’attuale sistema politico tunisino e del suo leader sono pari a zero. La popolazione sta peggio rispetto ai fratelli della Umma araba. Prosegue la politica del soccorso con la Banca Mondiale che ha promesso 130 milioni di dollari per tamponare le carenze più evidenti. Però le soluzioni sono lontane a Tunisi come nei villaggi dell’entroterra. L’assenza di piani economici continuano a porre il dilemma d’una cronica disoccupazione e di una sotto occupazione lesiva di diritti e dignità per i giovani, anche nell’unica fonte di reddito: il turismo dei resort. Che è ripreso e, in questa fase di scarso reperimento di alimenti, convoglia lì i pochi prodotti primari che continuano a scarseggiare nei mercati. Sottopagati nel lavoro di camerieri, addetti alle pulizie e alle cucine i ragazzi tunisini sognano solo di fuggire e farsi una vita altrove. Proprio come nel 2010. Andranno alle urne? si ritroveranno nel tardivo pentimento del giurista Belaïd? o invece sosterranno il nuovo uomo forte del vecchio mondo arabo?

Enrico Campofreda




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