Presidenziali tunisine fra disillusione e benalismo
Chiusi i seggi delle presidenziali tunisine quel che balza immediatamente agli occhi e alla conta che non offre ancora dati ufficiali è la bassa affluenza alle urne, frutto di anni di disillusione seminata a piene mani dalla politica.
Che pure veniva vissuta con passione almeno per un biennio dall’avvìo della protesta antiautoritaria che, nel dicembre 2010, diede il la alle primavere arabe e mantenne la Tunisia, pur fra i drammi di omicidi politici e gli spazi ricercati dal fondamentalismo jihadista, in una diversità dalla tragica fine di piazze come quelle egiziana, libiche, siriane. Però, i gruppi che si sono succeduti al potere, dall’islamista Ennahda al secolare Nadaa Tounes hanno solo prodotto una polarizzazione, lasciando insolute questioni vitali come quella economica in crisi perenne. Un’economia problematica già nei decenni del vecchio regime con una dipendenza atavica da capitali stranieri, un’economia che offriva manodopera a basso costo che proprio per i bassi salari non sollevava le sorti dei lavoratori, ma al contempo non vedeva strutturarsi un ceto imprenditoriale autoctono degno di questo nome. Produceva rapidi arricchimenti e fughe di capitali trasformati in rendite di squallidi furbetti protetti dalla politica. L’eredità è l’attuale disoccupazione incistata a un 15% della popolazione, con punte del 40% fra i giovani che oggi risultano oltre il 70% dell’elettorato. Ecco un buon motivo perché ragazzi e ragazze - che pure hanno visto fratelli e sorelle scendere per via nel periodo della ricerca d’una svolta - restano senza fiato di fronte al vecchiume che hanno davanti agli occhi. Un vecchiume che ormai non è il defunto Essebsi, ma chi si candida a sostituirlo, proponendo nient’altro che il passato. Erano partiti in 96, ne sono rimasti 24, coloro che si contenderanno un ballottaggio sono quattro elementi, uno peggiore dell’altro.
Enrico Campofreda