mercoledì 12 agosto 2020 - Osservatorio Globalizzazione

Persona umana e cattolici in politica senza condizionalità

Siamo lieti di presentare oggi sull’Osservatorio Globalizzazione, un osservatore di spicco del mondo cattolico, Piotr Zygulski che oggi ci parlerà della relazione tra la persona umana e la politica, in particolare quella praticata dai cattolici. Buona lettura!

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Quella dei cattolici in politica è questione annosa. Proprio cinque anni fa mi confrontavo su quella che veniva definita “loquacità” dell’allora segretario dei vescovi italiani Nunzio Galantino, a fronte di una sostanziale “afonia” dei semplici battezzati. Tramontata la “Prima Repubblica” in cui la Democrazia Cristiana deteneva la maggioranza relativa, venuta meno anche la “Seconda” durante la quale la linea del card. Ruini interveniva a gamba tesa nell’agone politico con la complicità di “atei devoti”, il protagonismo di Galantino rischiava di riprodurre, seppur di segno opposto, la medesima logica di “scomuniche” contro chi fosse considerato incompatibile con il cattolicesimo, per una ragione o per l’altra. Sono possibili nuove sintesi coraggiose, integrali e radicali anziché riproporre «scialbi compromessi al ribasso» in cui è stato relegato lo stereotipo “moderato” del cristiano? Si possono evitare le contrapposizioni moralistiche selettive, testimoniali e superficiali su alcuni “temi etici”, che siano quelli dell’aborto o dello ius soli, quali unico criterio di scelta elettorale? L’ultimo lustro ha comportato ulteriori fratture tra un ampio settore dell’episcopato che – introiettando dall’alto l’ideologia “anti-populista” – è andato sempre più a braccetto con il rassicurante centrosinistra istituzionale e una minoranza disorganica di “nuovi cattolici del dissenso” turbata da tale cambio di schieramento, con il conseguente abbandono della retorica sui “valori non negoziabili” a favore di una nuova retorica sui “migranti”. Tra l’altro il centrosinistra ha un bacino elettorale urbano che meno ha patito la crisi economica, mentre le “periferie”, i disoccupati, i poveri ora tendono a rivolgersi alle destre, le quali si contendono – tra loro – quel “dissenso cattolico” con riferimenti identitari a devozioni, a simboli e a tradizioni religiose. Tale fenomeno non è stato sufficientemente studiato nella sua complessità necessaria, e il rischio di una incomunicabilità è grave. Infine, la perentorietà dei comunicati CEI di questa primavera riguardo le Messe (per riequilibrare le accuse di accondiscendenza verso il Governo Conte) e l’opposizione alla legge sulle discriminazioni sessuali ha dato voce nuovamente a toni difensivi delle proprie prerogative che hanno alimentato altre tensioni, spaccature e confusioni tra i cattolici italiani.

Cattolici e politica: Sturzo, Dossetti, La Pira, Lazzati, Moro

A un anno dal mio La radicalità del cristiano (in Nipoti di Maritain, n. 8, pp. 62-66) sono tornato sul tema grazie a Rocco Gumina con il suo “Cattolici e politica. Temi, figure e percorsi del Novecento italiano” (AVE, Roma 2019). La ricerca fa emergere, sotto angolature non troppo frequentate, il contributo delle più rilevanti figure dell’impegno cattolico nella politica italiana del secolo scorso.

Sturzo e la libertà sostanziale nella laicità plurale

La prima è quella di Luigi Sturzo, che Gumina – evitando la pigra etichetta di “destra liberale” – valorizza soprattutto per la «chiara formulazione della laicità e dell’aconfessionalità circa la partecipazione dei cattolici alla società attraverso aggregazioni partitiche», e per la moralità della politica in quanto «finalizzata alla ricerca del bene comune». Certamente la riflessione di Sturzo – chiamato a essere sia prete, sia politico – vede al centro la libertà, ma come egli stesso diceva: «Non è certo di una libertà forma ed esteriore che intendo parlare, ma di una libertà intima e sostanziale, che pervade tutto il corpo sociale». Insistere sulla libertà non solo della Chiesa, ma anche dello Stato (mai assolutizzato), dell’intero corpo civile e della coscienza umana ha permesso al suo Partito Popolare di formare, in opposizione al Ventennio fascista, una classe dirigente d’eccellenza. La politica come mezzo di un benessere terreno per meglio attuare quello spirituale, così come la intendeva Sturzo, non implica una indebita confusione tra politica e cattolicesimo. Anzi, valorizza la missione ispiratrice del laicato cattolico che sceglie il pluralismo partitico, le regole democratiche e l’unità nazionale – anziché militare in partiti confessionali che fanno della religione una difesa di interessi di parte – per avvicinare e includere le masse popolari nello Stato liberale, che necessitava di una riforma affinché venissero riconosciuti i diritti naturali dell’uomo e dei corpi sociali all’interno di una relazionalità comunionale. La sua lezione necessita pur sempre di esserecollocata nel proprio contesto storico, come egli stesso era attento alle potenzialità della propria realtà, muovendosi tra l’ideale e il reale nel campo del possibile. A tutto ciò si lega anche la preoccupazione per emancipare il Mezzogiorno da atteggiamenti feudali.

Dossetti e il riformismo strutturale per promuovere la persona umana

Veniamo poi a Giuseppe Dossetti, che Gumina presenta nel decennio 1943-1952. I riferimenti di Dossetti sono esplicitati: dal domenicano Congar deriva la prospettiva in cui anche i laici consacrano ogni realtà umana; dal cardinale Journet l’azione politica quale “epifania dell’Essere”, in costante tensione verso il Bene; da Maritain la tensione verso un umanesimo integrale “profano” ma vivificato dal fermento cristiano. In questo processo di «dilatazione della vita divina in sé e negli altri» il laico può operare o su mandato gerarchico per formare gli altri cristiani, oppure a titolo personale per realizzare la giustizia sociale in un contesto ormai definitivamente plurale, in cui tra l’altro i cattolici sono una minoranza consapevole della sproporzione tra l’appartenenza sovrannaturale e l’agire storico, indispensabile ma limitato. Dell’attività politica di Dossetti l’Autore ripercorre in primis l’esperienza spirituale di Resistenza al nazi-fascismo; nel confronto con i partigiani comunisti si è interrogato sulle modalità di intervento dei cattolici in politica, sino a ispirare durante Costituente la cosiddetta corrente egemonica democristiana dei “professorini” che avanzava «un programma fortemente innovativo che legava la riforma dello Stato al rinnovamento economico-sociale del paese», in cui assumeva un ruolo preminente la giustizia sociale e la persona umana nella sua necessaria solidarietà sociale in una democrazia sostanziale. Qui il partito non ha il ruolo di portare avanti un’ideale di bandiera, bensì di promuovere riforme coraggiose – in contrapposizione ai compromessi del politichese liberal-conservatore di De Gasperi – per schierarsi esplicitamente con i poveri, gli oppressi e la classe operaia anziché avallare con compromessi e sottigliezze linguistiche un ordine economico sempre più ingiusto. Si spese quindi per la Cassa del Mezzogiorno e la riforma agraria, anche per strappare consensi ai comunisti; tuttavia nel 1952, consapevole che la situazione di stallo era definitiva e che egli non aveva più margini di incisività decisionale, abbandonò il coinvolgimento diretto nella DC per «tamponare al massimo la crisi», a favore del “secondo piano” di un impegno culturale di studio e di ricerca.

La Pira e la prioritaria lotta alla disoccupazione e all’emergenza abitativa

Ci imbattiamo in Giorgio La Pira, anch’esso mosso da una visione spirituale, che aveva scelto di incarnare facendosi vicino ai più deboli e promuovendo la fraternità fra le nazioni – in particolare del Mediterraneo, in cui emergevano i paesi non allineati nello scontro della Guerra fredda – con progetti realizzabili, a partire dai gemellaggi proposti dalla città di Firenze, della quale era sindaco. La Pira si caratterizzava non per il paternalismo, ma per la partecipazione decisiva degli emarginati alle decisioni fondamentali: «Nella scelta fra i ricchi ed i poveri; fra i potenti ed i deboli; fra gli oppressori e gli oppressi; fra i licenzianti e i licenziali; fra coloro che ridono e coloro che piangono; la nostra scelta non ha dubbi: siamo decisamente per i secondi», affermava. Proponendo «una mediazione fra teorie keynesiane e dottrina sociale della Chiesa in vista di una politica economica che prendesse sul serio il problema della crisi sociale» – spiega Gumina – «il governo era chiamato a perseguire il solo obiettivo di compiere una lotta organica contro la disoccupazione e la miseria rivolta all’ottenimento del pieno impiego». Per costruire una società cristiana occorre necessariamente assicurare a tutti i cittadini un lavoro e mediante esso il reddito necessario per una vita dignitosa, come scriveva La Pira nel 1950 nell’articolo L’attesa della povera gente. L’economia, la finanza, la cultura, la libertà, tutto l’edificio sociale deve essere fondato sulla piena occupazione per garantire il pane quotidiano a tutti; così la sua giunta comunale si prefiggeva di risolvere «i problemi della popolazione più umile di Firenze» – diritto al lavoro, diritto alla casa, diritto all’assistenza – facendo «il possibile e l’impossibile per adempiere a questo fondamentale comandamento umano e cristiano», secondo il sindaco. Affrontando la sfiducia dei cittadini verso una democrazia ritenuta inadatta a promuovere il progresso sociale e ad ascoltare le istanze popolari, La Pira affrontò le emergenze abitative e lavorative anche con il sostegno di Enrico Mattei, con il quale offrì una soluzione pubblica al rischio delle dismissioni della fabbrica del Pignone: «Bilancio o non bilancio […] qui c’è da salvare qualcosa di ben più saldo: la fiducia nella democrazia: fiducia affidata non solo e non tanto alle leggi elettorali, quanto alla reale capacità di risolvere i veri problemi degli uomini: lavoro e casa». Come già sottolineava Rodolfo Doni, per i dossettiani come La Pira «il bilancio dello Stato deve essere compilato con riferimento non più al danaro, ma al potenziale umano disponibile: tanti uomini da occupare, tanti danari da spendere: deve diventare un bilancio a “scala” umana».

Moro e il ripensamento delle istituzioni politiche

Dopo un capitolo su Giuseppe Lazzati e la “doppia cittadinanza” divina e umana dei cristiani, chiude questo “polittico politico” Aldo Moro. Sotto la lente del personalismo, Gumina ne valorizza l’insistenza sulla giustizia e sulla prassi democratica in un «pensare politicamente allo Stato e alla società come soggetti dinamici da interpretare nello sviluppo incessante e complessivo della storia». All’interno dello Stato democratico ci si può impegnare per colmare le ingiustizie; il mezzo del partito invece permette di avvicinare le masse alla cosa pubblica e di superare lo scollamento tra i rappresentati e i rappresentanti; questa attenzione istituzionale non è mai fine a sé stessa, pure qui infatti emerge una «via media fra utopia e realtà» in un dinamismo sociale in evoluzione.

Quale riforma della politica?

La parte conclusiva del saggio di Gumina prende le mosse da alcune analisi del sociologo Garelli sulla rilevanza politico-culturale dei cattolici per poi appuntare proposte di una riforma della politica. Tuttavia – nonostante le nobili intenzioni – giustizia, democrazia inclusiva, cura, responsabilità, abitare la città, ecologia e “nuovo umanesimo”, rischiano di rivelarsi parole vuote, in assenza di un’incisività concreta; lo stesso si può dire dell’immagine di Luigi Bobba dei “ponti levatoi” che rappresenterebbero l’identità cristiana “resiliente” alle circostanze. Non è tanto questione di realizzare «tutto e subito», quanto di incamminarsi in una radicalità coraggiosa che non riduca tali espressioni a una retorica decaffeinata, senza mutare le condizioni strutturali che tanto angosciavano i “professorini” democristiani. Più che una riforma della politica va preso atto che lo scenario rispetto a cinquant’anni fa è molto cambiato: il potere è solo marginalmente in mano ai cosiddetti “politici”. Se già Dossetti e La Pira notavano il dramma di una democrazia incapace di affrontare le questioni degli ultimi e le ingiustizie economiche, oggi lo scenario tecnocratico – tra l’altro senza più sovranità monetaria nazionale né IRI in grado di coordinare la politica industriale italiana – è dato per molti come inevitabile, e talvolta lo si spaccia pure per “realismo”.

La tecnocrazia che umilia la persona umana

Eppure, il vero realismo – attento ai rapporti di forza – dovrebbe condurci alla consapevolezza che alcune istituzioni come quelle intrinsecamente neoliberiste (e quindi anti-personaliste) dell’Euro e dell’Unione Europea, così come scaturite dai Trattati di Maastricht e di Lisbona, sono intrinsecamente inique e non mostrano significativi margini di riforma. Ma esiste libertà al di fuori di esse. I diktat del debito pubblico, del pareggio di bilancio, dello spread e delle condizionalità dei prestiti economici ai paesi privi di sovranità monetaria sembrano inaggirabili; proprio qui servirebbe la profezia lapiriana in grado di offrire una soluzione strutturale, facendole eco: «Bilancio o non bilancio!». Invece, tradendo questo grido, i politici cosiddetti cattolici solitamente sono tra i più inclini a sostenere l’Unione Europea – che alimenta ingiustizie, in quanto il suo principale dogma è la libera concorrenza, soprattutto al proprio interno tra economie assai diverse – temendo come male peggiore il “ritorno dei nazionalismi” o ritenendola irreversibile (e in tal caso non si capisce perché andrebbe difesa, se davvero non si può tornare indietro). Una certa consapevolezza la dimostra il professore Pietro Andrea Cavaleri, che nella prefazione nota come

«le decisioni vere, quelle più importanti, quelle che incidono sul destino della gente, vengono prese da poche persone, da ristrette aristocrazie economico-finanziarie, da accorti e trasversali gruppi di potere, fuori dai riflettori, dietro le quinte delle istituzioni democratiche e non certo per l’affermazione del “bene comune”. Ecco perché la democrazia è in crisi! Ecco perché il diritto di votare è divenuto uno sterile esercizio quasi privo di significativi effetti».

 

P.A. Cavaleri, Prefazione a R. Gumina, Cattolici e politica, AVE, Roma 2019, p. 11.

Uno Stato sovrano può spendere quanto occorre per la dignità della persona umana

Da ciò non deve seguire che «una più rafforzata presenza dell’Unione Europea potrebbe rivestire un ruolo particolarmente incisivo e decisivo», anzi: se è vero che lo scenario è stato volutamente globalizzato, proprio lo Stato – incluse le amministrazioni locali – se dotato di opportuni strumenti decisionali può invece costituire un freno ai meccanismi tecnocratici che generano drammi sociali. Essi costringono, ad esempio, milioni di persone a emigrare non liberamente per turismo, ma perché la propria terra è stata depredata proprio dalle stesse multinazionali che ipocritamente si ergono a tutela delle minoranze; il risultato è una guerra tra poveri, una concorrenza individualistica favorita da esigenze di profitto. Proprio per questo negli scorsi decenni sono state indebolite le sue “difese immunitarie” in vari modi, a partire dallo smantellamento del tessuto produttivo italiano; oggi, anche in un’ottica di sussidiarietà e di solidarietà sociale, riavvicinare il potere ai cittadini sembra realisticamente più praticabile con un ritorno alla sovranità nazionale (non sciovinistica) che non “auspicare” la riforma di una sovranità sovrannazionale in un senso forse più inclusivo, ma difficilmente democratico nel senso sostanziale della parola: il Popolo al potere. Lo stile “populista” – che, favorito dai social, propone un contatto diretto tra il rappresentante e il rappresentato, ma anche tra il Papa e il singolo fedele, superando le mediazioni burocratiche/partitiche/curiali – è un sintomo di tale lontananza da colmare, tra l’altro con parlamenti sempre meno rappresentativi delle minoranze a causa di distorsioni maggioritarie e sbarramenti impensabili nella Prima Repubblica, dove per molto meno si parlava di “legge truffa”. Tutto ciò dovrebbe condurre a una (auto)critica sull’impegno di numerosi “cattolici sociali” che – infine unendosi a ciò che rimaneva del PCI ormai organico all’alleanza militare NATO, proponendosi persino come esecutori testamentari di Aldo Moro – hanno imboccato questo vicolo cieco.

Aprirsi a visioni alternative per liberarci dalle inevitabilità irriformabili

La lezione degli autori presentati da Gumina può essere ripresa muovendosi tra il realismo dell’irriformabilità di certe istituzioni e l’utopia di una progettualità (o perlomeno di una “visione”) economica, politica e sociale radicalmente alternativa a tutto ciò che ci viene imposto come inevitabile, relativizzando ogni costruzione umana destinata a tramontare. Uno sguardo cristianamente spalancato non può rassegnarsi: cerca vie praticabili per non restare intrappolato dalla contingenza, superandola con coraggio e sguardo fisso sulla dignità insopprimibile della persona umana, nella convinzione che tutto – non ci sono condizionalità finanziarie che tengano – è subordinato ai suoi diritti fondamentali al lavoro, alla casa, al cibo e alla solidarietà sociale. Ci sono fondate ragioni per dubitare che senza una banca centrale subordinata al controllo popolare o perlomeno di un governo libero da condizionalità o qualsivoglia “vincolo esterno” ciò possa essere davvero perseguito. Probabilmente le ragioni della crisi del cattolicesimo politico andrebbero ricercate soprattutto qui.

Adattamento da quanto pubblicato il 30 luglio 2020 su https://www.termometropolitico.com/1569846_persona-umana-cattolici.html

Foto: Wikipedia




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