Perché abbiamo bisogno di Pitbull
Viaggio al centro del successo di Pitbull, un cantante che abbaia ma non morde.
Ogni due mesi la radio della Smart ferma al semaforo accanto a voi mette in circolo nell'etere la voce ispaneggiante di un giovane trentatreenne calvo, noto alle cronache col nome di Pitbull.
Perché?
Pitbull, alias Mr. Worldwide, è lo pseudonimo di Armando Christian Pérez, nato a Miami da genitori cubani in fuga dal sogno infranto della rivoluzione, come lo stesso cantante, in un crescendo di pathos, ha dichiarato al David Letterman Show. “Mia nonna si è resa conto che Fidel Castro non era la persona in cui aveva creduto”. E via, a cercare fortuna negli Stati Uniti, dove “grazie a Dio” il cucciolo di Pitbull nasce nel 1981.
La sua è la storia di un giovane immigrato che rischia di finire nei giri pericolosi della Miami anni '90, tra poliziotti baffuti e mafie locali, in un imprecisato ma ancestrale legame ispanici-droga. Armando impara a conoscere la strada tenendosene però abbastanza lontano (nonostante sia stato cacciato di casa a 16 anni perché spacciava), finché una maestra che crede in lui lo folgora sulla via di Damasco con un suggerimento scioccante: “Ma al rap non c'hai mai pensato?”.
Mai intuizione fu più geniale. In un crescendo di successi che lo rendono una delle più insopportabili voci rauche della storia dei cantanti-ispano-americani-che-la-musica-ha-salvato-dalla-strada, Pitbull arriva fino al coronamento del sogno di qualunque pop star: la canzone dei mondiali. In Brasile. L'occasione per fare il brano più allegro e spensierato della storia. Occasione ovviamente fallita.
Ma andiamo con ordine. A vent'anni, Pitbull è un esemplare adulto: scoperto dai Diaz Brothers, viene presentato al grande Robert Fernandez, che lo adotta subito. Qualche tempo dopo, ripensando al giovane Pitbull, Fernandez dichiarerà “Aveva fame”. L'idea del produttore è semplice ma geniale: presentare Pitbull a Lil Jon, un uomo dal cuore grande e dalla dentatura discutibile (nella foto).
Il cameo di Pitbull nel disco di Jon, Kings of Crunk, è l'inizio di una rivoluzione per i chioschi sulla spiaggia e i discopub di mezzo mondo.
L'album del debutto, M.I.A.M.I., contiene un singolo, dall'emblematico titolo Culo destinato a far tremare milioni di sex on the beach. Nel testo le parole “baby” “dance” “shake” e “club” si rincorrono in una spirale vertiginosa, inaugurando una notte senza freni e senza tempo che rappresenta la poetica stessa del cantante. Con Toma, Pitbull mette in versi il suo manifesto programmatico: il video inizia con lui e un suo amico, due lavapiatti che sognano di sfondare nel mondo della musica, e infatti con la risoluzione necessaria quest'ultimo diventa il re della R&B, nel video e nella realtà (tranne che nella realtà non faceva il lavapiatti).
Per abbattere i cliché, fonda con Sean 'Diddy' Combs la Bad boy latino, una label che si occupa di tutte le variazioni della musica latina (tranne quella antica). Il resto è storia: un album ogni due anni, finché non arriva, nel 2009 un successo al di là del bene e del male, con la hit dal gusto arrogante I know you want me. Il video è quello di un uomo realizzato e desiderato che si veste inspiegabilmente male e canta e balla con effetti in sovraimpressione che farebbero impallidire persino il regista di Andrea Diprè.
Da allora, Pitbull sforna un successo dopo l'altro, affermandosi come il re dei featuring. Pitbull è la spalla canora che tutti le star del pop cercano. La sua voce da tabagista, le sue risate finte, e qualche parola in spagnolo, lo rendono l'amico ideale a cui far cantare versi veloci in cui in sostanza non si dice nulla ma si riempie il tempo necessario a passare da un ritornello all'altro. Shakira, Christina Aguilera, Ke$ha (con il simbolo del dollaro, sì), T-Pain - un cicciottello con l'Auto-Tune conficcato in mezzo alle corde vocali -, Kelly Rowland e naturalmente Jennifer Lopez sono solo alcuni degli indimenticabili duetti che vedono come protagonista il nostro Armando.
Ma perché?
Pitbull, con il suo charme da lungomare di Ostia, i suoi occhialoni riminensi e le sue giacche da prediciottesimo, è uno che ce l'ha fatta. Sicuro di sé come un assicuratore rampante, facile da capire, amico dei bassi gracchianti e delle discoteche con le luci colorate, Mr. Worldwide la domenica organizza il pranzo di pesce a Fiumicino e il conto lo paga lui, però se gli sfiori lo specchietto della Ferrari ti prende a cazzotti sui denti. Pitbull potrebbe tranquillamente essere il tizio che la tua migliore amica si rimorchia l'estate a Mykonos, poi lo aggiunge su Facebook e ti mostra una sua foto cercando di giustificarsi con espressioni come "è carino, dai!":
Un modello antropologico universale, un buono che ha lasciato le miserie della strada per imbarcarsi su uno yacht (una caratteristica della musica commerciale che hanno colto con acume i Lonely Island). Mai dimentico delle sue umili origini, Pitbull è l'amico che conosce la gente giusta e ci fa entrare alle feste in piscina (perlomeno se abitiamo a Miami). È brutto e coatto, talvolta ha i baffetti e la mosca, non ha particolari talenti artistici, e non saremmo in grado di distinguere una sua canzone da quella di un altro che canta insieme a lui agitando le mani allo stesso modo, ma la sua voce morde le nostre orecchie in tutti i momenti della giornata, mentre siamo dal barbiere, mentre compriamo il gelato, in Salento, e perfino durante la cerimonia di apertura dei Mondiali.
Pitbull ci permette di identificarci: ci fa credere di poter un giorno indossare quegli occhiali senza essere bullizzati, oppure ci fa sentire semplicemente migliori. Ecco perché abbiamo bisogno di lui.
O forse no.
Foto: Wikimedia