giovedì 26 marzo 2020 - Phastidio

PA: il “tesoretto” delle ferie e la cassa integrazione

di Luigi Oliveri

Egregio Titolare,

non bastassero i furbetti del cartellino, adesso nascono i furbetti delle ferie e dell’esenzione dal lavoro, anche a causa di un Legislatore ancora una volta incauto ed indeciso. Abbiamo a più riprese, da questi pixel, stigmatizzato la circostanza che nel lavoro pubblico non esiste un istituto come la cassa integrazione, il che sta creando nel sistema ipocrisie al quadrato, anzi, al cubo.

L’articolo 87 del d.l. “cura Italia” (il d.l. 18/2020) torna a disciplinare il lavoro agile “emergenziale” come strumento principale per evitare che i lavoratori pubblici stiano troppo in giro, seminando contagio.

È perfettamente chiaro ed oggettivo che in tantissimi casi questo lavoro agile, improvvisamente sbocciato in una PA che per anni ha voluto scientemente ignorare del tutto questa modalità organizzativa nonostante leggi imponessero di assicurarne l’estensione ad almeno il 10% dei dipendenti, altro non è se non, appunto, una cassa integrazione mascherata.

Nella gran parte delle amministrazioni mancano i mezzi, hardware e software, per un lavoro agile minimamente produttivo. Soprattutto, non è possibile in pochi giorni che amministrazioni completamente disabituate a disporre obiettivi chiari, definire prodotti del lavoro, modi di produzione e tempi di produzione, siano in grado di agganciare il lavoro agile a credibili e rendicontabili progetti lavorativi.

Infatti, in tanti casi ci si sta inventando una sorta di “home working” nel quale al più si chiede di rispondere al telefono o di “auto formarsi”.

Insomma, si nasconde, dietro al lavoro agile condito da generici ed improbabili mansionari da svolgere a casa, una sinecura retribuita.

Nel momento in cui occorre garantire il distanziamento sociale, è necessario attivare ogni misura volta a scongiurare il pericolo sociale. Anche un lavoro pubblico da casa a scartamento ridotto, quindi, ci può stare. E non è un caso che sempre il decreto “cura Italia” abbia sospeso tutti i termini dei procedimenti amministrativi: organizzazioni non in grado di assicurare al 100% la funzionalità, non sono in astratto in grado di rispettare uno dei pochi indicatori di produttività oggettivi, il rispetto delle scadenze dei procedimenti.

In presenza di uno strumento onesto e trasparente, come la cassa integrazione, molte delle ipocrisie nascoste dietro tanti progetti farlocchi di lavoro agile non sarebbero necessarie.

Ma, Titolare, la cosa clamorosa è che quell’articolo 87 del decreto “cura Italia” consente di aggiungere ipocrisia ad ipocrisia.

Infatti, ammette in astratto la circostanza che alcuni lavoratori pubblici né siano individuati tra quelli adibiti ad attività indifferibili e tali da richiedere necessariamente la presenza in servizio (si pensi agli addetti alla protezione civile o all’ordine pubblico, oltre ovviamente a medici e infermieri), né sia possibile prevedere per loro attività in lavoro agile: perché non dotati a casa di adeguata strumentazione (poiché la PA negli anni passati non ha investito un centesimo nel lavoro agile, si deve sperare nella buona volontà di chi metta a disposizione propri pc, telefoni, contratti telefonici), o perché addetti a mansioni difficilissime da rendere in lavoro agile: i “camminatori”, che spingono i faldoni sui carrelli, ad esempio.

Cosa ha deciso il legislatore? Indica ai datori pubblici di fare in modo che questi dipendenti restino comunque a casa (visto che non svolgono attività indifferibili in presenza), utilizzando allo scopo gli strumenti regolati dalla contrattazione collettiva che diano titolo ad assenze retribuite: e quindi, permessi, congedi, e anche ferie.

Sciaguratamente, tuttavia, il legislatore ha ritenuto di qualificare il sostantivo “ferie” con l’aggettivo “pregresse”. Da qui lo scatenarsi delle ipocrisie.

Chi ha scritto che il datore pubblico deve utilizzare le “ferie pregresse” deve essere convinto di aver disposto una norma particolarmente geniale ed utile. Ha, invece, prodotto solo confusione.

Infatti, chi ha scritto tale norma evidentemente non sa che non è affatto un colpo d’ala la pretesa che i dipendenti fruiscano delle ferie arretrate. La combinazione tra le norme della contrattazione collettiva dei comparti pubblici e dell’articolo 10 del d.lgs 66/2003 “Attuazione delle direttive 93/104/CE e 2000/34/CE concernenti taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro”, impone ai dipendenti di fruire nel corso dell’anno di tutte le ferie relative a quell’anno; solo per motivate ragioni personali, pochi giorni potrebbero slittare, nella fruizione, all’aprile dell’anno successivo.

Quindi, la fruizione delle “ferie pregresse” è un dovere; non è una gentile concessione del dipendente, né uno strumento di contrasto al contagio particolarmente innovativo o geniale.

È, purtroppo, vero che in tantissime amministrazioni, specie negli enti di minori dimensioni, i datori pubblici abbiano gestito l’istituto con troppa distrazione, facendo sì che tantissimi lavoratori accumulassero un “tesoretto” di giorni e giorni, decine, in alcuni casi paradossali, centinaia, di giorni di ferie.

Far smaltire simili cumuli di ferie è un obbligo giuridico, prima ancora che una misura anti contagio. E tale obbligo va riferito anche al personale in astratto adibito al lavoro agile: prima dovrebbe azzerare simili “tesoretti” e poi tornare al lavoro agile.

Vi sono, però, anche amministrazioni più virtuose, capaci di far rispettare le regole sulle ferie e/o dipendenti non propensi ad accumularle.

In questi casi, il plafond di ferie “pregresse” è di pochi giorni, al massimo 5. È ben evidente che se questi lavoratori non possono andare né a lavori indifferibili per cui sia necessaria la presenza, né in lavoro agile, con simile quantità di ferie “pregresse” non si assicura la lontananza dalla sede di lavoro cui vuole giungere il legislatore.

La norma fonda un chiaro dovere del datore pubblico di porre in essere ogni misura perché i dipendenti non indispensabili per il lavoro in presenza e non in lavoro agile restino comunque a casa, nel supremo interesse della garanzia della salute pubblica.

Non c’è nulla, quindi, di cui meravigliarsi se il datore pubblico eserciti le proprie prerogative e disponga la fruizione delle ferie anche del 2020, quanto meno nella misura delle due settimane sostanzialmente nella disponibilità appunto datoriale (le altre due sono quelle da garantire al lavoratore nel periodo estivo).

L’ipocrisia normativa, però, scatena i sindacati, caro Titolare. Sì, perché accanto allo svarione della qualificazione delle ferie come “pregresse”, quale ultimo rimedio per i lavoratori non inseriti nelle attività indifferibili, non in lavoro agile e senza strumenti per assenze retribuite, l’articolo 87 del decreto “cura Italia” prevede l’esenzione dal servizio, “motivatamente”.

I sindacati, quindi, hanno colto la palla al balzo. E “tuonano” con “diffide” o “inviti” variamente modulati, rivolti alle amministrazioni per indurle a non utilizzare ferie del 2020 e ad avvalersi quanto più possibile dell’esenzione dal servizio.

Dunque, ricapitolando: un legislatore distratto per anni non ha introdotto mai qualcosa come la cassa integrazione nel lavoro pubblico; ricorre al lavoro agile, per anni ignorato, come foglia di fico (spesso) per nascondere una sinecura a casa; si rende conto che non proprio tutto è possibile rendere col lavoro agile, ma sciaguratamente lascia pensare chi ritiene che le ferie siano un “tesoretto” che il datore pubblico possa imporre solo quelle “pregresse” e dà adito ai sindacati di pretendere l’intangibilità delle ferie e l’esenzione dal servizio.

La pretesa della conservazione delle ferie, in una fase simile, è davvero paradossale. Invece di pensare che chi possa fruirne è comunque in una condizione migliore dei tanti lavoratori, e si torna ai medici, agli infermieri, alle forze dell’ordine, agli addetti alla protezione civile, ai necrofori, ai corrieri, ai farmacisti, ai trasportatori, ai produttori di mascherine e ventilatori, agli agricoltori e trasformatori e produttori di alimenti, agli addetti ai servizi a rete (gas, luce, acqua, telefonia, dati) e a tutti gli altri che questi pixel dimenticano, si avanza una sorta di – per altro – inesistente diritto all’intangibilità di ferie, che non si sa nemmeno se andando avanti la pandemia si potranno davvero fruire.

E con la sciagurata previsione dell’esenzione dal servizio, si mette in condizione chi vuol farlo, di comportarsi da “furbetto”: né si rende disponibile al lavoro agile, affermando di non avere (magari è anche vero) l’attrezzatura necessaria; né accetta di porsi in ferie, sventolando il vessillo del sindacato che “tuona” e “diffida”; pretendendo, quindi, l’esenzione, nella sublimazione della sinecura.

Meglio, quindi, sarebbe stato se il legislatore a questo punto avesse disciplinato il tuto in modo da evitare che una minoranza di “furbetti”, veri o potenziali, appoggiandosi su battaglie non proprio di avanguardia dei sindacati, avesse disposto davvero una onesta cassa integrazione.

Si potrebbe affermare che in fondo l’esenzione dal servizio lo è. Non è esattamente la stessa cosa, tuttavia. La cassa integrazione è connessa alla presa d’atto formale della chiusura operativa di produzioni o reparti. L’esenzione, invece, appare proprio una misura ad personam, che prescinde da un’oggettiva valutazione della produzione del datore.

Per altro, l’esenzione deve essere “motivata”. Per questo non può certo essere assegnata semplicisticamente perché il dipendente non vuol intaccare le ferie o non si presta al lavoro agile, come invece vorrebbero i sindacati. I quali, non essendo soggetti alla giurisdizione contabile, non tengono conto delle responsabilità enormi davanti alla Corte dei conti, conseguenti a facilone esenzioni dal servizio.

Visto che queste esenzioni sono da “motivare” e che tanti lavoratori, invece indispensabili nel lavoro in presenza, vorrebbero prendere ferie e vorrebbero essere esentati dal servizio ma non possono, perché non specificare che l’esenzione, da motivare, sia conseguente ad un percorso di valutazione di impossibilità di lavoro agile e di esaurimento di congedi e ferie, cui succeda un distacco verso esattamente quelle attività da rendere in presenza? I servizi di protezione civile si avvalgono anche di volontari: non dovrebbe essere troppo complicato adibire ad attività semplici e di base lavoratori che vogliano tenersi strette le ferie e non si prestino al lavoro agile.

L’esenzione giunga dopo. E, al pari dei lavoratori in cassa integrazione, se interviene, che sia regolata commisurando la sospensione dell’attività lavorativa ad un’indennità e non allo stipendio fisso, fatta sola l’eccezione del buono pasto (e, sia detto tra noi, Titolare: aumentano i “tuoni” e le “diffide” anche per la pretesa del buono pasto di chi lavora a casa).

Foto di Free-Photos da Pixabay 



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