giovedì 17 ottobre 2019 - Osservatorio Globalizzazione

Nobel a Peter Handke: i guardiani dell’ipocrisia

Con piacere presentiamo questo contributo del professor Andrea Zhok, che rilanceremo più volte nelle prossime settimane e ringraziamo fortemente per la sua disponibilità.

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L’assegnazione del premio Nobel per la Letteratura allo scrittore austriaco Peter Handke è stata un’imperdibile occasione per i pasdaran del ‘correttismo politico’, per mettersi in scena come autoproclamati guardiani della morale.

Peter Handke era in odor di Nobel già nella seconda metà degli anni ’90, quando ebbe l’infelice idea di uscire dal coro politico-mediatico ufficiale, pubblicando (1996) “Eine winterliche Reise zu den Flüssen Donau, Save, Morawa und Drina oder Gerechtigkeit für Serbien” (Un viaggio d’inverno ai fiumi Danubio, Sava, Morava e Drina, ovvero giustizia per la Serbia). In questo diario di viaggio Handke rifiutava la vulgata costruita dai media occidentali, dove alla Serbia venivano imputate unilateralmente le colpe ed atrocità della sanguinosa guerra civile iniziata nel 1991, e dava spazio alle ragioni serbe.

Handke, che si è sempre considerato socialista, è legato anche per ragioni biografiche (da parte di madre) alla Jugoslavia, la cui dissoluzione ha sempre considerato una tragedia. In quest’ottica egli condannò dall’inizio come illegittime ed esiziali le dichiarazioni di indipendenza di Slovenia e Croazia.

È impossibile percorrere qui l’accidentata storia della guerra in Jugoslavia. A titolo di spunto, senza nessuna pretesa di esaustività, è però utile ricordare un paio di questioni.
Alle origini della guerra non stanno affatto, come si sente dire spesso, inveterati odi nazionalistici. Il livello di ‘odio etnico’ presente in Jugoslavia dal dopoguerra fino agli anni ‘80 era più o meno lo stesso che si può percepire in Italia in forma di battute ‘etniche’ su ‘polentoni’ e ‘terroni’, o baruffe di campanile. La principale differenza rispetto ad un contesto come quello italiano era rappresentata dall’esistenza di tradizione religiose diverse (cattolici in Slovenia e Croazia, ortodossi in Serbia e Montenegro, una maggioranza relativa di musulmani in Bosnia). Queste differenze rappresentavano potenziali linee di faglia, ma erano faglie silenti, trattandosi di un paese essenzialmente laico e dove la mescolanza della popolazione, per ragioni lavorative e matrimoniali, era stata elevata.
Con la morte di Tito e la crisi economica degli anni ’80 si avviò un processo di esacerbamento delle tensioni di matrice etnico-nazionale con il fattivo contributo di agenti esterni, e nello specifico dell’attivismo tedesco, che ambiva a ricondurre l’area industriale della Jugoslavia (Slovenia e parte della Croazia) nella propria zona di influenza. La Germania fu la prima a far sapere che eventuali richieste di indipendenza sarebbero state da loro riconosciute, fornendo di fatto una sponda perfetta ai nazionalisti sloveni e croati. Il problema della rottura dell’unità jugoslava era infatti innanzitutto un problema di natura economica: nella ‘divisione del lavoro’ avvenuta all’interno della Repubblica Federale di Jugoslavia il settore industriale era rimasto concentrato in Slovenia e Croazia, mentre alla Serbia, il territorio più esteso e popoloso, era stato attribuito principalmente un ruolo agricolo, amministrativo e militare. Una rottura del paese con la promessa al Nord di entrare nell’area produttiva tedesca significava un futuro potenzialmente roseo per Slovenia e Croazia, e un destino di arretratezza e minorità per il Sud (Serbia, Montenegro e Bosnia-Erzegovina).

Anche il contesto degli eventi internazionali non va dimenticato: il 1991 è anche l’anno della fine ufficiale dell’URSS e la Jugoslavia, in quanto repubblica socialista non allineata, poteva rappresentare un potenziale fattore aggregante per orfani del socialismo reale.

In questo contesto la ‘comunità internazionale’ avrebbe potuto giocare le proprie carte in vari modi. La scelta esplicita di Germania e USA, sia per ragioni economiche che politiche, fu quella di alimentare le istanze separatiste, promuovendo di fatto la guerra civile.

Nel 1991 il presidente croato Franjo Tuđman (noto simpatizzante degli Ustascia di Ante Pavelic ed antisemita) annunciò (con il sostegno, come oggi si sa, della C.I.A.), la costituzione di un esercito nazionale croato trasformando e incrementando le forze speciali di polizia. Successivamente Croazia e USA firmarono un accordo militare che includeva l’addestramento dell’esercito croato da parte di una compagnia militare privata (Military Professional Resources, Inc.) sull’isola di Brac (Dalmazia).

Una volta incendiata la questione nazionale vennero anche rimpatriati molti estremisti nazionalisti, che negli anni di Tito erano rimasti in esilio in Germania e Svizzera. Con la dichiarazione di indipendenza della Slovenia il conflitto iniziò a fare il suo corso, tragico ed efferato come possono essere solo le guerre civili.
Gli orrori di quella guerra, perpetrati da tutte le parti in causa, furono narrati in Occidente con singolare unilateralità. Di alcuni orrori (Srebrenica) si parlò per anni, di altri (come il massacro di 1400 civili serbi in Krajina da parte dell’esercito croato) si sentì parlare poco o nulla. (Incidentalmente l’offensiva croata in Krajina fu approvata dai governi statunitense di Bill Clinton e tedesco di Helmut Kohl, che fornirono anche armi e strumentazioni all’esercito croato.)

Ora, tornando a Handke, ho un ricordo personale molto forte del suo posizionamento di allora. In quel periodo (1996) vivevo a Vienna, e Handke iniziava ad essere bersagliato per il suo accoglimento delle ragioni unioniste della Serbia. Ricordo a questo proposito la sua reazione all’ennesima giornalista che, in una conferenza pubblica all’Akademietheater, lo aveva assalito chiedendogli se non si sentisse in colpa per le “vittime” (die Betroffenen).
La risposta di Handke (ritrovata testualmente in rete) fu: “Stecken Sie sich Ihre Betroffenheit in den Arsch! Ihr tut so, als gehört Euch das Leid und die tausenden Toten, Sie Jammergestalt! Ich rede nicht mit Ihnen, hauen Sie ab!” (“Si metta il suo ‘vittimismo’ nel culo, miserabile, lei fa come se la sofferenza e le migliaia di morti le appartenessero. Io con lei non parlo, sparisca!”). Al tempo ricordo di aver trovato la risposta assai appropriata, ma il conto arrivò a stretto giro di posta. Handke, prima una celebrità invitata ovunque, venne fatto letteralmente sparire dalla scena pubblica. Molte librerie restituirono le opere di Handke, annunciando che non le avrebbero vendute più. I suoi lavori smisero di essere tradotti all’estero. La morte civile coprì l’autore e la sua opera per oltre un decennio.

Di fronte a questo linciaggio morale Handke, essendo caratterialmente piuttosto lontano dalla genia degli yes-man, si arroccò nella propria posizione, probabilmente più testardamente di quanto sarebbe stato giusto fare. Quando nel 2006 Milosevic venne ‘trovato morto’ in circostanze mai chiarite nel carcere dell’Aia (proprio a ridosso della decisione sulla sua richiesta di confronto in aula con Bill Clinton e il generale Wesley Clark), Handke si recò al suo funerale, dove parlò in sua difesa.

Ora, non è possibile, né ha alcuna importanza cercare qui di stabilire con acribia ragioni e torti relativi a quell’orrore che è stata la guerra civile jugoslava, dall’indipendenza della Slovenia a quella del Kosovo (1991-1999). Quello che si può dire con considerevole sicurezza sono però almeno tre cose: che ci furono colpe gravi da tutte le parti; che la guerra venne alimentata inizialmente dall’atteggiamento di autorevoli paesi occidentali; che quegli stessi paesi si schierarono nella guerra civile con una parte, e contro l’altra, per ragioni che nulla avevano a che fare con motivazioni ‘etiche’.

In questo quadro non è importante stabilire se Handke avesse ragione o torto, o quanta parte di ragione e quanto di torto. Il punto è che delle posizioni di Handke il minimo che si può dire è che fossero posizioni critiche degne di essere ascoltate e discusse con rispetto, non certo di essere fatte oggetto della versione ‘liberal’ del rogo dei libri.

Ma tolleranza per le opinioni eterodosse, amore per la ragione critica, ricerca della verità, sono formule con cui i ‘liberal’ occidentali si sciacquano la bocca quotidianamente, salvo non connetterle ad alcun contenuto reale.

I moderni ‘liberal’ sono quelli la cui narrativa e cinematografia glorificano a getto continuo i personaggi ‘franchi e trasgressivi’, applaudono i ribelli ‘che non la mandano a dire’, osannano gli eroi scapigliati che hanno il coraggio di dire ‘verità scomode‘; ma quando accidentalmente qualcuno se ne esce dal giardinetto ammuffito delle convenzioni mainstream la loro reazione è solo sdegno inorridito e la richiesta di quella testa su un vassoio (e che si tratti di Assange, Handke o altri poco importa).

È tutta gente che ama molto gli intellettuali. Purché siano decorativi, leggano le veline o siano educatamente morti.




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