venerdì 6 gennaio 2012 - Enrico Campofreda

Mubarak, una condanna a morte che forse non verrà

Hosni Mubarak ha ripreso a presenziare alle sedute del suo processo disteso e silente come una mummia. E’ ufficialmente malato: cancro allo stomaco sostengono i referti medici mostrati ai giudici dagli avvocati. E’ accusato della morte violenta di oltre 800 manifestanti nei giorni della rivolta dello scorso febbraio e rischia la pena di morte per impiccagione. Secondo i pubblici ministeri non solo sapeva del bagno di sangue che l’Esercito stava attuando in diverse città del Paese ma ordinava quella ferocia con uso di armi da fuoco sin dal 27 gennaio 2011.

Sul banco degli imputati siedono anche Habib Al-Adly e altri sei responsabili delle Forze di Sicurezza. Il maresciallo Tantawi, all’epoca ministro della Difesa e tuttora al vertice dello Scaf, ha testimoniato a porte chiuse. Accusati di corruzione Alaa e Gamal, figli del raìs che nel consolidato sistema di potere attendevano di succedergli pur attraverso consultazioni-farsa. I rampolli rischiano 15 anni di galera. Dopo l’ultima arringa del procuratore Mustafa Suleiman, che lo ritiene responsabile degli eccidi di manifestanti, le cose si mettono male per Mubarak. Per gli omicidi premeditati la legge egiziana prevede la condanna capitale e non è detto che l’età e la malattia salveranno l’ex presidente. Testimonianze, foto, filmati che si sono susseguiti in aula della violenza con cui furono trucidati cittadini inermi hanno rilanciato una riprovazione non solo fra i familiari delle vittime presenti attorno al Tribunale, allestito in una caserma nella periferia cairota. Eppure…

Fra i momenti più tetri rivisitati assolutamente scioccante è risultata la sequenza di un poliziotto accovacciato sul tetto di un’auto di servizio che con un colpo di pistola squarcia la testa d’un inerme ragazzo presente a pochissima distanza dal mezzo. Di scene crudelissime ce ne sono a decine e costituiscono un’aggravante molto pesante perché confermano non l’eccezione bensì la linea di condotta generale seguita da Esercito e Polizia, una condotta preordinata e applicata con cinismo per diversi giorni. Viene anche ricordato l’uso di agenti provocatori in borghese infiltrati nelle manifestazioni di strada e quello di picchiatori assoldati nel giorno dello sgombero forzato di piazza Tahrir con l’uso di cammellieri armati di carabine, fino a plurime accuse d’aver utilizzato bande di criminali comuni che durante gli scontri sparavano a freddo, alle spalle dei dimostranti in fuga. Una sequenza di infamie che una parte della popolazione non dimentica. Eppure alcuni nostalgici del regime puntano sul desiderio di ritorno alla normalità che è comunque molto diffuso nel Paese e fa proseliti fra gli stessi oppositori dell’ultim’ora, come i giovani di Tahrir definiscono Fratelli Musulmani e altre forze islamiste. Il successo elettorale, la certezza di fare il pieno di deputati in due-terzi della Camera bassa e di un prossimo allargamento dell’onda anche sul voto di quella Alta conduce i leader islamici a guardare pragmaticamente al presente. 

Così l’ennesima dicotomìa vissuta dalla nazione ruota anche attorno al processo al vecchio satrapo. C’è chi vuole affermare i diritti e punire esemplarmente i colpevoli col massimo della pena prevista dal Codice e chi freme per un ritorno al business che non tralascia punizioni ma non esaspera gli animi. Talune voci indicano fra costoro proprio il sistema dei partiti, Libertà e Giustizia e Al Nour al pari del Blocco Egiziano. A richiedere una condanna commisurata per il sangue dei tanti fratelli uccisi resta chi porta il lutto in casa. E restano gli utopisti che tuttora sognano una rivoluzione sotto le Piramidi.




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