martedì 2 febbraio 2010 - Lucio

Monopoli S.p.A.

Monopoli S.p.A.
Dopo Tangentopoli, Calciopoli, Vallettopoli, l’ultimo scandalo degno di una "Repubblica delle banane", è Monopoli. Gli scandali emergono in modo frequente a riprova che il Belpaese è da tempo "un popolo di ladri, furbetti, finanzieri rampanti, calciatori, veline, escort, magnacci, paparazzi, manager falliti, spie e giocatori di Monopoli".
 
La retorica nazionalpopolare esaltava la nostra "amata Patria" come "un popolo di santi, poeti, eroi e navigatori". Oggi gli unici "navigatori" che l’Italia vanta sono gli utenti della Rete, i "navigatori solitari" del World Wide Web, che sta per "ragnatela grande come il mondo" e si configura appunto come un’enorme "ragnatela", anche nel senso di una "trappola gigantesca" in cui possono cadere i "navigatori". Perciò, Internet rischia di diventare, se già non lo è, un terreno di caccia dello spionaggio planetario.
 
Ma torniamo alle vicende di "cosa nostra". Francamente, l’aspetto più inquietante e grottesco è la conferma di essere tutti, tranne ovviamente gli spioni, puntualmente schedati e spiati, quindi coinvolti in un sistema salito alla ribalta come "la grande spiata generale". Le vicende "scandalistiche" e "gossippare" che hanno coinvolto prima Marrazzo, poi il sindaco di Bologna, e lo scandalo Berlusconi/escort, tutto sommato ci investono da vicino, benché la gente sia toccata da questioni più concrete e prioritarie.
 
In realtà gli scandali politici e morali s’intrecciano con quelli economici e con le pesanti ingiustizie sociali che investono la condizione delle classi lavoratrici nel nostro Paese. Il tema della moralità pubblica, come la crisi della democrazia rappresentativa, che sta spingendo il nostro Paese ad assomigliare sempre più ad un regime sudamericano, sono emergenze reali che pesano ed incidono direttamente anche sul versante sociale.
 
Non si tratta di questioni distinte e separate come si vuol far credere. Non a caso le vicende coinvolgono alcuni tra i maggiori esponenti della “casta politica”. Il dato va inquadrato nell’attuale contesto politico, nel quale si inserisce una prepotente campagna mediatica orientata in direzione anti-politica e filo-tecnocratica, in funzione antidemocratica e filo-confindustriale. Infatti, mi sembra poco casuale, ma molto ben calcolata la tempistica con cui gli scandali sono messi fuori, in un momento di grave imbarazzo e difficoltà per un settore vitale dell’industria e della finanza nazionali. In tal senso l’odierna campagna di anti-politica è senz’altro servita a distrarre l’opinione pubblica dallo stato di profonda crisi gestionale e finanziaria in cui versano alcune aziende italiane, per sferrare un violento attacco contro il ceto politico, ritenuto (non a torto) corrotto, colluso e connivente con il mondo degli affari, anch’esso corrotto.
 
A livello politico nazionale è in atto un aspro scontro per il potere, condotto anche con il ricorso a dossier scandalistici di gossip o altro genere. Insomma, in queste vicende è ravvisabile una sorta di “rivincita” della vera casta dominante contro la “casta” intesa come nomenclatura politica. Entrambe le caste fanno parte della stessa classe dirigente, ma è evidente che la prima, quella confindustriale, non si fida più della seconda, anzi sembra volersene sbarazzare per occuparsi liberamente dei propri affari senza fastidi o ingerenze, mettendo le loro luride mani sulle risorse pubbliche e sui “tesoretti” statali.
 
Riparato dietro gli scandali e protetto dall’oscurità, qualcuno trama per invocare e legittimare una svolta autoritaria del sistema politico, preparando una sorta di “golpe” morbido. Una chiave utile per interpretare l’uso strumentale che la lobby tecnocratica sta facendo dell’ennesimo scandalo, potrebbe rivelarsi in un’ipotesi relativa alla nascita di un esecutivo tecnico, molto spinto in senso moderato e antioperaio, peggiore di altri governi tecnocratici come quelli che, nella prima metà degli anni ’90, in piena bufera giudiziaria, gestirono il trapasso dalla prima alla seconda Repubblica.
 
Mi riferisco ai governi guidati da Giuliano Amato nel 1992-1993 (benché questi non fosse un tecnico, ma un politico di provata fede craxiana, il suo governo rivestì un ruolo favorevole al capitalismo della casta tecnocratica e finanziaria) e da Carlo Azeglio Ciampi nel 1993-1994 (già governatore della Banca Centrale Italiana). I quali furono responsabili di accordi siglati a scapito dei lavoratori. E si pensi all’esecutivo presieduto nel 1995 da Lamberto Dini (uno dei massimi dirigenti del Fondo Monetario Internazionale) il cui governo fu artefice della prima “contro-riforma” del sistema pubblico previdenziale. Cito questi elementi storici per fornire un’idea di quanti sacrifici e iatture possa procurare un eventuale “governo tecnico” alle classi lavoratrici.
 
La riduzione degli spazi di agibilità democratica, la carenza di un minimo di opposizione parlamentare, non dico "comunista" ma persino "socialdemocratica" e riformista, la mancanza di un quadro politico che sia minimamente "di sinistra", l’inesistenza di un soggetto politico interessato a salvaguardare la sfera delle garanzie costituzionali che appartengono ad una democrazia formale, sono intimamente legate all’assenza di una forza politica e sindacale in condizione di tutelare i diritti e gli interessi dei lavoratori.
 
Inoltre, credo valga la pena di spendere alcune parole a proposito della cosiddetta questione morale”. L’approccio risolutivo non può essere affidato semplicemente allo zelo moralizzatore di qualche onesto e laborioso magistrato di periferia, né alla solerzia repressiva di altri soggetti istituzionali, nella misura in cui non si tratta di un problema meramente penale e giudiziario, bensì va affrontato e risolto in sede politica e culturale, ponendola al centro di un incisivo e organico progetto di trasformazione radicale della società. La questione morale è una questione politica, intimamente legata alla società borghese, sempre più corrotta e putrescente. E come tale va affrontata alla radice, inserendola nel quadro di un’ipotesi di cambiamento totale della società, rimuovendo il ceppo, ormai deteriorato, del connubio tra politica e affari, un intreccio deleterio che è inevitabile perché insito nelle basi stesse dei rapporti capitalistici.
 
In conclusione, la questione morale non si può subordinare e vincolare ad un problema di ordine pubblico, ad iniziative, per quanto audaci e apprezzabili, di tipo giudiziario, ma deve rilanciarsi e ricollocarsi nella prospettiva di una più vasta azione di lotta e di trasformazione della società in un senso profondamente e decisamente anticapitalista.



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