lunedì 1 ottobre 2018 - Pino Mario De Stefano

Michel Serres | Educare nel XXI secolo

Si sente parlare spesso oggi di “emergenza educativa”, ma credo sia il caso di cominciare a pensare che ciò di cui si tratta non è tanto il fatto che oggi l’educazione sia un problema urgente, quanto piuttosto la constatazione che l’educazione è oggi, essa stessa, un “problema”

Vorrei illustrare questa questione rileggendo un discorso fatto all’Académie française da Michel Serres, qualche anno fa. Per me, Michel Serres è stato ed è un grande maestro oltre che raffinato interprete della nostra contemporaneità. I suoi testi sui temi del sapere, dell’educazione e sulle trasformazioni della società e delle mentalità attuali, sono ancora tutti da “esplorare”.

Per analizzare il tema dell’educazione nel XXI secolo, egli comincia con una affermazione che apparentemente sembra scontata, ma che oggi è molto problematica: prima di pensare di insegnare qualunque cosa a chiunque, bisogna almeno conoscere chi è colei o colui che si presenta oggi a scuola, al liceo, o all’università.

Ma che cosa sta succedendo oggi? Cosa rende l’educare un problema?

La sua risposta appare paradossale e al tempo stesso intrigante. 

Dopo la grande “svolta” del passaggio dall’oralità alla scrittura, nell’antica Grecia, quando è nata la Paideia, e dopo la svolta del Rinascimento, quando è apparsa la stampa ed è nato “il regno del libro”, oggi stiamo vivendo una terza svolta, con il passaggio alle nuove tecnologie, anch’essa decisiva e forse incomparabile, che apre un periodo di crisi profonda in ogni campo. I cambiamenti in atto infatti hanno un impatto radicale e profondo in ogni ambito dell’esistenza: culturale, antropologico, psicologico, corporeo

Infatti, nello stesso tempo in cui le tecniche mutano, il corpo si trasforma, cambiano nascita e morte, sofferenza e guarigione, mestieri, spazio, habitat e anche l’essere-nel-mondo .

Insomma, senza che ce ne accorgessimo, un “nuovo umano” è nato, nel breve arco di tempo che ci separa dagli anni Settanta. “Lui” o “lei” non ha più lo stesso corpo, la stessa aspettativa di vita, non comunica più allo stesso modo (per questo Michel Serres li chiama Pollicina e Pollicino per il loro modo di comunicare attraverso i “pollici”), non percepisce più lo stesso mondo, non vive più nella stessa natura, non vive più nello stesso spazio. Nato attraverso l’epidurale e con nascita programmata, non teme più, con l’aiuto delle cure palliative, la stessa morte. Non avendo più la stessa testa di quella dei suoi genitori, lui o lei conosce e sa diversamente.

Questi ragazzi, i “nuovi umani”, abitano “il virtuale”. 

Noi adulti abbiamo in un certo senso duplicato la nostra società dello spettacolo attraverso una forma di società pedagogica la cui concorrenza travolgente e orgogliosamente incolta, è in grado di eclissare la scuola e l’università.

Ed è anche utile sapere che, in quel contesto mediatico e virtuale che essi abitano, la parola più ripetuta è “morte” e l’immagine più rappresentata è quella di cadaveri! Già dall’età di dodici anni gli adulti li “forzano” a guardare più di ventimila morti! Un fatto da non trascurare!

In realtà, Pollinica e Pollicino si sono formati attraverso i media, diffusi da adulti che hanno metodicamente distrutto la loro capacità di attenzione. Nell’ambiente dei media infatti la durata delle immagini si riduce a sette secondi, e il tempo delle risposte alle domande, a quindici secondi (cifre ufficiali, nota Serres).

In tal modo essi non conoscono o integrano o sintetizzano come noi, i loro “antenati”. I “nuovi umani” non hanno più la stessa testa dei loro genitori. Così come non parlano più la stessa lingua

A tale proposito è curiosa e interessante la notazione di Michel Serres, riferita al contesto francese, ma la situazione può essere considerata analoga in altri paesi. Serres ci ricorda infatti che da Richelieu in poi l’Académie française pubblica, circa ogni venti anni, come riferimento, il dizionario della lingua francese. Ebbene, nei secoli precedenti, la differenza tra due pubblicazioni era di circa quattromila o cinquemila parole, in modo pressoché costante; invece tra il precedente dizionario e il prossimo, le parole differenti saranno circa trentamila

A questo ritmo, conclude Michel Serres, possiamo immaginare che le prossime generazioni potrebbero essere, domani, separate dalla attuale lingua francese in modo analogo a quanto noi lo siamo dal vecchio francese di Chrétien de Troyes o Joinville.

Eccoli allora, sul lato a valle di una specie di grande “faglia” che ci separa da loro, questi ragazzi e ragazze, a cui, dice Serres, pretendiamo di dispensare l’insegnamento all’interno di schemi, strutture e istituzioni che erano adatti a un'epoca in cui gli uomini e il mondo, però, erano ciò che non sono più.

Ecco anche le domande che a questo punto Michel Serres si rivolge e ci rivolge. Le nostre strategie educative, il nostro insegnamento e la trasmissione del sapere hanno ancora un senso e reali interlocutori?

Cosa trasmettere? Il sapere? Ma eccolo, ovunque sul web, disponibile, oggettivato. A chi trasmetterlo? A tutti? Ma, d'ora in poi, tutta la conoscenza è già accessibile a tutti. Come trasmetterlo? Già fatto. Con l'accesso a ogni persona, tramite telefono cellulare, con accesso ovunque, tramite GPS o WI-FI, l'accesso alla conoscenza è ora aperto. In un certo senso, è sempre e dappertutto già trasmesso! 

E allora? Che stiamo facendo quando pensiamo di insegnare? Di fronte a questi cambiamenti radicali, sarebbe forse necessario darsi da fare per inventare novità inimmaginabili, al di là delle cornici obsolete che ancora formattano e definiscono le nostre condotte, i nostri media, i nostri progetti educativi, adattati alla men peggio alla società dell'intrattenimento. 

Le nostre istituzioni educative, scrive Serres, sembrano brillare di una luminosità simile a quella di quelle costellazioni che gli astronomi ci indicano come già morte da molto tempo! Mentre, in realtà, tutto è da rifare, tutto rimane da inventare!

E allora, c’è da chiedersi, perché queste novità non sono ancora arrivate

Serres non ha timore di evidenziare la responsabilità dei filosofi, di cui anch’egli è parte. 

Il loro mestiere dovrebbe consistere nel guardare lontano e in un orizzonte globale per anticipare il sapere e le pratiche future, e invece essi hanno fallito nel loro compito. Infatti, sono troppo impegnati nella politica quotidiana, la politica del giorno per giorno, invece di fare il loro mestiere, e perciò non riescono ad avvertire l’arrivo della contemporaneità. 

 



1 réactions


  • Marina Serafini Marina Serafini (---.---.---.161) 29 dicembre 2019 00:44

    Carissimo, la convivenza in mondi diversi tra generazioni vicine é una drammatica realtà, lo diviene nel momento in cui i confini tra i mondi rendono altro il linguaggio e difficile la trasmissione. Wittgenstein parlava di giochi linguistici, del fatto che non é mai assolutamente chiuso il confine e che l’uomo, in quanto tale, aderisce sempre ad una qualche dimensione comune che consente il passaggio. Da un gioco linguistico ad un altro, da una forma di vita ad un’altra. La responsabilità della pedagogia, oggi come ieri, deve restare quella di educare l’individuo al pensiero critico, che é di fondamentale importanza da sempre e per sempre, tanto più in un mondo che trasmette informazioni a iosa e in velocità. La responsabilità dei filosofi sta nello sforzarsi di trovare il passaggio, di entrare in quei nuovi giochi linguistici per consentire la propria e l’altrui evoluzione. Il futuro diverso dal passati a nello stesso sentiero dell’umanità, una umanità sempre in divenire. Un caro saluto.


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