Mandela: l’arrogante sberleffo di Netanyahu
Nel vasto insieme di celebrazioni e ricordi legati alla figura di Nelson Mandela detto Madiba (il cui vero nome era profeticamente "Rolihlahla", letteralmente "colui che provoca guai") ha fatto scalpore l’assenza del premier israeliano alla commemorazione ufficiale.
E' vero che c'erano il presidente della Knesset e cinque deputati, ma l'assenza del Primo Ministro non è evidentemente senza significato. La scusa stessa accampata per spiegare la mancata presenza - “andarci costerebbe troppo” - riesce ad essere nello stesso tempo di una volgarità inaudita e di una stupidità senza confini.
Il gruppo ebraico "trattativista" JCall ha emesso un comunicato con cui prende nettamente le distanze dall’atteggiamento del governo israeliano: “L’incomprensibile comportamento di Netanyahu causerà probabilmente vergogna e biasimo a tutti i veri amici di Israele, riempiendo di gioia, invece, i feroci anti sionisti che tracciano, in modo profondamente sbagliato, un’equivalenza tra le politiche israeliane ed il regime dell’apartheid”.
Netanyahu avrebbe potuto accennare a oscure minacce e a problemi di sicurezza e ce la saremmo forse bevuta. Ma ha evidentemente voluto aggiungere lo spernacchio da caserma all’offesa alla memoria di un personaggio politico la cui levatura morale e civile dovrebbe essere riconosciuta da chiunque.
A prescindere dall’eventuale strumentalizzazione che di quel personaggio può essere fatta. E il problema infatti, sta tutto qui, nella strumentalizzazione politica che può essere fatta, e viene fatta, di Mandela che è stato il rappresentante riconosciuto della più cocciuta e vincente resistenza all’apartheid sudafricano, proclamato ufficialmente nel 1948 dal governo bianco di Pretoria.
L’opposizione politica di Mandela a questo stato di cose - all’ideologia che lo sorreggeva - non ha escluso a priori la lotta armata; al contrario fu tra i fondatori del Umkhonto we Sizwe, il braccio armato dell’ANC (African National Congress) il partito della maggioranza nera del paese.
Un braccio armato che causò danni e vittime e drammatiche reazioni e controreazioni che insanguinarono il Sudafrica fino al limite della catastrofe apocalittica che avrebbe potuto esserci. Ma che non ci fu. Grazie soprattutto a Mandela che decise di abbassare imperiosamente il livello dello scontro fra i milioni di neri dalla rabbia incontenibile e la minoranza bianca dalle armi implacabili.
Avrebbe potuto diventare un oceano di morte e distruzione, quel paese, se non avesse prevalso, in lui e - grazie a lui - nel suo partito e quindi nell’avverso partito dei bianchi, l’umano sul bestiale, l’idea vincente su quella suicida/omicida.
Solo convincendo l’agguerritissima minoranza bianca (non tutti, ma in numero sufficiente) che la rabbia nera non avrebbe portato tutti i bianchi alla morte, l’ANC ha potuto chiedere, pretendere, di essere creduta affidabile come partner di un dialogo e non come infida promotrice di un inganno. E chiedere quindi che le armi fossero abbassate; perfino quelle delle fazioni più oltranziste degli afrikaner più reazionari.
Era la strada vincente, l’unica capace di portare il paese tutto, bianchi e neri, fuori dalla sacca in cui si era cacciato. Non dalle ingiustizie sociali o dalla disparità economica che esistono tuttora a vent’anni dal crollo dell’apartheid, ma, almeno, dalla più violenta segregazione razziale.
Questa non è invece la strada scelta dalla resistenza palestinese nei confronti di Israele ed è la causa prima della sua sconfitta storica. Ma proprio per questo la scelta offensiva di Netanyahu verso Nelson Mandela appare del tutto inaccettabile perché avrebbe potuto indicare nella figura del leader sudafricano il possibile referente con cui avrebbe voluto e potuto dialogare.
I palestinesi sono stati drastici oppositori di ogni ipotesi di spartizione del territorio dell’ex mandato britannico, a partire dalle due proposte degli anni ’30 alla delibera ONU del ’48, fino a quelle successive ai conflitti del ’67 e del ’73; hanno visto sempre vincente - fra le loro fila - l’idea della resistenza armata e dell’opposizione frontale al nemico "sionista".
Il pragmatico governo di Abu Mazen che probabilmente sarebbe realmente intenzionato a concludere una pace duratura con Israele, non ha il coraggio di indire nuove elezioni - benché governo e parlamento di Ramallah siano scaduti ormai da anni - ben sapendo che Hamas con ogni probabilità le vincerebbe. Cioè vincerebbe la fazione che nel suo statuto fondativo, mai rinnegato né modificato, ha ancora l’obiettivo dichiarato di “porre il nemico nel nulla”. Annientare e far sparire “l’entità sionista”.
La strada diametralmente opposta a quella percorsa dall’ANC di Mandela. E quindi la strada che porterà a continui bagni di sangue, esattamente come quelli che ripetutamente hanno insanguinato (relativamente) Israele e (molto) la Striscia di Gaza o la West Bank.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti: il Sudafrica è uscito dal pozzo nero in cui era finito, mentre la Palestina - se e quando mai arriverà ad essere uno Stato - non sarà che frammenti di quello che avrebbe potuto essere.
Ma Netanyahu, non riconoscendo all’ex presidente sudafricano l’omaggio al liberatore degli oppressi che qualcuno trasla forzatamente sulla situazione palestinese, ha forse voluto comunicare che non c’è oggi alcun Mandela con cui lui, il premier israeliano, trova possibile rapportarsi o che non riconoscerebbe nemmeno a Mandela la dignità dell'interlocutore.
Difficile a dirsi. In ogni caso che ci sia il rifiuto di Netanyahu a riconoscere un interlocutore o che non esista proprio un vero Mandela palestinese - cose che sono probabilmente entrambe vere - ci proverà allora John Kerry a fare da vero facilitatore di dialogo. Partendo appunto, dicono le fonti di stampa israeliane, dal “problema sicurezza” che per lo stato ebraico è il punto nodale di tutto il contenzioso con i palestinesi.
“Molti anni fa - scrive Janiki Cingoli, esponente di punta del CIPMO - in un importante libro scritto a due mani da Sari Nusseibeh, storico esponente palestinese, e Marc Heller, tra i più importanti analisti israeliani, affermavano che il negoziato tra israeliani e palestinesi è asimmetrico, in quanto gli israeliani devono dare indietro una cosa concreta, come la terra, ricevendo in cambio una cosa volatile, come le promesse di pace”.
Se il mediatore americano riuscirà a far digerire ai due negoziatori le proposte elaborate dal suo staff su sicurezza e confini - con lo scambio di territori di cui ormai si parla da anni - forse la trattativa potrà arrivare al nodo spinoso di Gerusalemme, la capitale “indivisibile” di Israele che potrà/dovrà essere divisa almeno un po’ per rispondere alle richieste di tutto il mondo arabo, non solo palestinese. E sarà un passaggio difficilissimo per i negoziatori israeliani che alle spalle hanno un governo densamente abitato da oltranzisti della Gerusalemme indivisibile.
Trattativa oltremodo complessa ma che può sfruttare appieno la drastica posizione israeliana contraria agli accordi sul nucleare iraniano. Se Netanyahu vorrà, fra sei mesi, portare a casa risultati più stringenti e vicini alle sue richieste dovrà concedere qualcosa, adesso, all’alleato americano. E ai suoi nuovi ‘amici’ sauditi che vogliono, forse più che Israele, avere da Obama una maggior capacità “persuasiva” verso (contro) Teheran, ma che sono ancora offesi per il rifiuto israeliano della loro proposta di pace, presentata e nemmeno presa in considerazione.
Insomma i giochi come sempre si giocano sulle mille scacchiere del più complicato puzzle del mondo. In cui anche l’arrogante sberleffo ad un leader morto porta con sé molti significati, molte parole e tante allusioni. Perché nulla è come sembra nel Vicino Oriente dei mille contrasti.
Foto: Christine van der Merwe/Flickr
(Published in Matieland, Stellenbosch University's official alumni magazine; and shortlisted in TNT Magazine's Home Sweet Home competition - tntmagazine.com/homesweethome.)