venerdì 21 aprile 2023 - Enrico Campofreda

La via tunisina alla repressione

Facendo arrestare Rached Ghannouchi alla non più tenera età delle ottantuno primavere, l’attuale uomo forte tunisino Saïed vuole incatenare un simbolo, quello dell’Islam politico. 

Che ha di certo gestito male, sia al governo sia nelle piazze, la ribellione del 2010 con Bouazizi immolato nel fuoco e il popolo che si ribella al clan dell’autocrate e ladro Ben Ali, ma che ha mantenuto una presa sull’elettorato. Nonostante tutto: la deriva fondamentalista, il copioso reclutamento di combattenti da parte di frange jihadiste, il ritorno al potere, col mandato presidenziale del vecchio Essebsi che era stato per decenni al servizio di Bourguiba, dei nuclei faccendieri. E la successiva navigazione a vista fino alle secche del colpo di mano di Saïed, senza che però nessuno risolvesse la disperante trìade di: assenza d’investimenti, disoccupazione, livellamento delle diseguaglianze. Sono essi a generare il dramma migratorio punto affligente dell’altra sponda del Mediterraneo (Italia in testa) affannata dagli effetti e incurante delle cause, come l’intera comunità internazionale oggi carezzevole verso Saïed come lo è stata con Essebsi e Ben Ali. Al suo interno la piccola Tunisia riproduce con forme più morbide ma ben radicate la spaccatura presente in altre Repubbliche nordafricane, a cominciare dall’Egitto. Un mondo laico timoroso delle organizzazioni islamiche, siano la più recente Ennahda o quelle storiche della Fratellanza Musulmana, che vengono osteggiate e scalzate anche quando vincono le elezioni e guidano il Paese. L’arresto dell’anziano e malandato Ghannouchi segue quello d’una ventina di oppositori con cui mister Robocop - il sessantacinquenne presidente che due anni addietro umiliò le Istituzioni e sciolse il Parlamento per farsi successivamente eleggere da neppure il 20% dell’elettorato - reitera in maniera per ora meno sanguinaria quel che fece il generale egiziano Al Sisi: stragista nell’agosto 2013 davanti alla moschea cairota di Rabaa (si contarono fino a duemila militanti assassinati a colpi d’arma da fuoco), persecutore dapprima degli islamisti della Brotherhood ma non del fondamentalismo salafita, quindi di sindacalisti e di quei socialisti e attivisti laici che avevano criticato la presidenza Morsi.

I democratici tunisini possono sperare che Saïed non raggiunga il record repressivo del presidente golpista d’Egitto che da un decennio ha rinchiuso oltre sessantamila cittadini nelle carceri speciali delle Forze Armate, ha fatto sparire e assassinare centinaia d’individui, fra cui il ricercatore italiano Regeni, ma di fatto la canea ideologica contro l’organizzazione politica islamica ha matrici comuni. E la visione sistemica laica di orientamento progressista o conservatore, che s’oppone a un para-confessionalismo inseguito dai politici islamici che trova nel nodo di leggi da mettere in relazione alla Shari’a l’ostacolo principe per un confronto paritario, finora ha seguìto scorciatoie che sfociano nella demonizzazione dell’avversario e nella sua repressione. Se parte delle dispute ruotano attorno a questioni di primaria importanza come la concezione del ruolo femminile e delle opportunità di genere nella società, ben al di là delle norme su abbigliamento e obbligo del velo, e sulla concezione dei diritti civili, gli esecutivi del “laicismo armato” su questi temi hanno mostrato in varie circostanze un approccio simile se non comune. La contrapposizione è quasi sempre legata a ragioni d’interesse e di potere più che a elementi culturali e di credo religioso, anche perché l’islam resta la fede di riferimento per gli stessi carcerieri Saïed e Sisi. Dunque tanta ideologia e poco pragmatismo da parte di tutti. Fattore non nuovo che, solo per restare agli ultimi tempi, ha spinto molta gioventù insoddisfatta a cedere alle lusinghe del reclutamento islamico armato, ingaggiato nelle file dei foreign fighters dell’Isis, per scelta di campo e pure per parcelle mercenarie. Invece per risalire a un trentennio fa ha prodotto scempi nella sanguinosa guerra civile algerina. Tanto, se non tutto, perché il Fronte islamico di Salvezza che vinceva le elezioni nel 1991, subendo nel giro d'un mese lo scippo del successo e il giogo del golpe militare, non finiva in toto fra le file del Gruppo islamico armato, organizzato nei tre anni seguenti. L’eredità di quel decennio nero furono 150.000 vittime e un milione di sfollati. Eppure sembra essere servito a poco.

Enrico Campofreda

 




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