La via tunisina alla repressione
Facendo arrestare Rached Ghannouchi alla non più tenera età delle ottantuno primavere, l’attuale uomo forte tunisino Saïed vuole incatenare un simbolo, quello dell’Islam politico.

Che ha di certo gestito male, sia al governo sia nelle piazze, la ribellione del 2010 con Bouazizi immolato nel fuoco e il popolo che si ribella al clan dell’autocrate e ladro Ben Ali, ma che ha mantenuto una presa sull’elettorato. Nonostante tutto: la deriva fondamentalista, il copioso reclutamento di combattenti da parte di frange jihadiste, il ritorno al potere, col mandato presidenziale del vecchio Essebsi che era stato per decenni al servizio di Bourguiba, dei nuclei faccendieri. E la successiva navigazione a vista fino alle secche del colpo di mano di Saïed, senza che però nessuno risolvesse la disperante trìade di: assenza d’investimenti, disoccupazione, livellamento delle diseguaglianze. Sono essi a generare il dramma migratorio punto affligente dell’altra sponda del Mediterraneo (Italia in testa) affannata dagli effetti e incurante delle cause, come l’intera comunità internazionale oggi carezzevole verso Saïed come lo è stata con Essebsi e Ben Ali. Al suo interno la piccola Tunisia riproduce con forme più morbide ma ben radicate la spaccatura presente in altre Repubbliche nordafricane, a cominciare dall’Egitto. Un mondo laico timoroso delle organizzazioni islamiche, siano la più recente Ennahda o quelle storiche della Fratellanza Musulmana, che vengono osteggiate e scalzate anche quando vincono le elezioni e guidano il Paese. L’arresto dell’anziano e malandato Ghannouchi segue quello d’una ventina di oppositori con cui mister Robocop - il sessantacinquenne presidente che due anni addietro umiliò le Istituzioni e sciolse il Parlamento per farsi successivamente eleggere da neppure il 20% dell’elettorato - reitera in maniera per ora meno sanguinaria quel che fece il generale egiziano Al Sisi: stragista nell’agosto 2013 davanti alla moschea cairota di Rabaa (si contarono fino a duemila militanti assassinati a colpi d’arma da fuoco), persecutore dapprima degli islamisti della Brotherhood ma non del fondamentalismo salafita, quindi di sindacalisti e di quei socialisti e attivisti laici che avevano criticato la presidenza Morsi.


Enrico Campofreda