mercoledì 5 luglio 2023 - Enrico Campofreda

La via della pace, la via della guerra

Cosa direbbero gli arcigni alfieri della resistenza contro le aggressioni se un novello Arafat, ammesso che questa dietrologia si potesse materializzare, andasse in giro alla maniera di Zelensky a chiedere armi per il suo popolo? Le Democrazie occidentali, la “libera” stampa di mezzo mondo sosterrebbero tale passo?

 Non è accaduto ieri, non accadrebbe oggi. Non solo perché il fronte palestinese non conosce più leader carismatici, non solo perché da troppo tempo è frantumato in cento rivoli, non solo perché ha conosciuto tradimenti interni e quelli del mondo arabo “amico”. Non potrebbe accadere perché oggi come ieri Israele gode di una protezione mondiale. Addirittura superiore a quella concessa da Regno Unito e Stati Uniti che favorivano la nascita di quello Stato per risarcire il popolo ebraico dallo sterminio nazista, mentre sulla sponda comunista era radicata un’utopica visione dei kibbutz microcosmi di socialismo in evoluzione. Se tale spirito esisteva in alcuni pionieri del laburismo israeliano, Ben Gurion e Golda Meir avevano altri progetti. Quello palese, protetto da un mondo solidale, toglieva la terra ai discendenti dei beduini che abitavano la Palestina insieme a ebrei, cananei, filistei e finanche fenici. Ma un ritorno alla terra del nativo egiziano Mosé che poi è la terra del babilonese Abramo – e già queste origini ampliano l’orizzonte in quel Medioriente vissuto da genti diverse che solo la foga di supremazia dell’ultimo secolo, capace di occupazioni, guerre e muri, ha voluto dividere anziché condividere – non è stato un ritorno pacifico. Israele sorta per dar patria agli ebrei della dispora, diventa anno dopo anno lo Stato dell’esclusione altrui. Non solo l’esclusione religiosa, ma della lingua, delle culture, della stessa Storia. Perché una riscrittura della Storia è in atto in chi vuole impossessarsi di quella Città di Dio che è Yerushalaym-Ierusalem-Al Quds e farne la sua capitale. Così quella che dovrebbe essere la più aperta delle città del mondo ritorna a un secolare passato di guerre, diventa proprietà di chi vuole imporre con le armi la sua visione sociale-religiosa-culturale e - povera Israele - razziale. La questione è complessa, intricata, dibattuta e combattuta tanto che parlare di armi rappresenta la scelta più folle.

Eppure davanti a una sperequazione che vede nove milioni di israeliani, non tutti ebrei, ma dagli anni Settanta è in atto il disegno delle colonie che porta in questa nazione, dai luoghi più disparati del mondo, famiglie da collocarle, lo sanno tutti, nello sputo di territorio (Cisgiordania, West Bank e la denominazione più ipocrita perché perpetuata, Territori Occupati) dove chi ci abita non ha più spazio per sé e rischia la vita. Dunque nove milioni di cittadini d’Israele vantano uno degli eserciti più tecnologici e potenti del globo, dotato d’un centinaio di testate nucleari, che dovrebbero scontrarsi – ovviamente si spera di no – con tre milioni e mezzo di palestinesi della suddetta Cisgiordania, più i due milioni di gazawi e l’incerto numero della diaspora palestinese, divisa fra Libano, Siria, Iraq e i più fortunati che vivono altrove nel mondo. Fortunati nel corpo, nella salute, non nell’animo. La loro resistenza è fatta di missili Qassam, esplosivi e kalashnikov usati da gruppi irregolari, più o meno strutturati. L’esercito e soprattutto la polizia, nati dai sempre disattesi Accordi di Oslo che hanno creato l’Autorità Nazionale Palestinese, oltre a risultare subalterni alle Forze Armate di Tel Aviv, hanno assunto, sotto la direzione di personaggi come Mohammed Dahlan, una funzione d’offesa più che di difesa della propria gente. Tutta questa è storia scritta e vecchia, talmente vecchia che qualsiasi agguato, scontro, rivolta, intifada, somiglia a fatti passati, perché quel che accade è a senso unico, chi impone la sopraffazione non vuole la pace. Punta a ripartire da conquiste decennali, da demolizioni e ammazzamenti, da imposizioni e usurpazioni a ruoli fissi. Qualsiasi lettore sa chi guadagna e chi perde. Sebbene poi tutti perdano la normalità esistenziale, vivendo nella precarietà, nell’ansia, nel terrore. Una domanda abbastanza retorica è chi perpetui tale situazione. Ma la “resistenza dei Qassam” potrebbe diventare più efficace se le Democrazie occidentali, così benevoli verso ogni desiderio bellico del presidente ucraino, facessero altrettanto con un leader palestinese? Cosa pensano gli arcigni alfieri delle resistenze dei popoli? In ogni guerra dichiarata o strisciante le popolazioni soffrono e muoiono, perciò ci auguriamo la pacificazione d’ogni fronte. Però i conflitti si bloccano azzerando le cause e sotterrando anziché i cadaveri le ipocrisie.

Enrico Campofreda




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