giovedì 4 luglio 2019 - Pressenza - International Press Agency

La stampa multietnica: sui migranti cambiare narrativa

“Viviamo in un’epoca in cui l’opinione pubblica decide il limite che le scelte politiche possono
raggiungere o superare. L’informazione in questo ha una grande responsabilità nel parlare dei migranti o delle comunità straniere in Italia”. Così Tana Anglana, esperta del Summit
nazionale delle diaspore (Snd), aprendo l’incontro ‘L’informazione che cambia. Notizie dell’Italia plurale’, che si è tenuto nella sede romana dell’agenzia di stampa ‘Dire’.

di Agenzia DIRE

Obiettivo del dibattito, che ha coinvolto ieri giornalisti e operatori della stampa multietnica, “cambiare il gergo e il pensiero che viene trasmesso sulle realtà straniere in Italia, un pensiero spesso troppo frettoloso, a volte un po’ malizioso” ha sottolineato Mirko Tricoli, dell’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo (Aics), ente sostenitore del Summit.

“Nell’immaginario collettivo l’immigrato è considerato in modo negativo” ha detto Ahmad Ejaz, giornalista autore per la rivista ‘Azad’, rivolta alla comunitù pachistana di origine in Italia. Secondo Ejaz, questa situazione è determinata dal fatto che “manca la conoscenza delle altre culture, anche tra i giornalisti italiani più esperti”. A confermarlo Stephen Ogongo, originario dal Kenya, fondatore del progetto editoriale ‘Cara Italia’: “Tanti giornalisti italiani che raccontano le migrazioni non conoscono o non capiscono questo mondo. Basterebbe che
venissero formati”.

Secondo Ogongo, è importante anche che i cronisti “osservino la società italiana, che è multiculturale, affinchè possano facilitare l’unione tra italiani e stranieri”. Il suo intervento
si è concluso con un appello: “Nelle redazioni vorrei vedere anche più cronisti di origine straniera, ma non perchè scrivano di migrazioni, bensì di ciò di cui hanno le reali competenze”.

Di stereotipi da superare ha detto Rose Ndoli, redattrice del ‘Black Post’, una testata online nata per comunicare le realtà di origine migrante in Italia: “Agli italiani chiediamo di non
avere pregiudizi su noi migranti. Vorremmo che capissero che, in fondo, i problemi che hanno loro sono anche i nostri”. Secondo Ndoli, il ‘Black Post’ è “un esempio di integrazione”, perchè
la redazione è composta da giornalisti con radici e origini in altri Paesi, i cui articoli sono rivisti da volontari che seguono e curano l’iter di correzione di bozze e pubblicazione. L’impegno, ha sottolineato Ndoli, è raccontare i fatti quotidiani: “Vogliamo poter dire la nostra senza condizionamenti”.

La sinergia tra migranti e mondo del giornalismo non è però sufficiente, secondo Lucia Joana Metazama, presidente dell’Associazione delle donne mozambicane in Italia: “Per risolvere questa situazione, le parole non servono più. Ormai servono i fatti”.

Metazama ha sollevato a titolo di esempio le difficoltà dei migranti di trovare casa in affitto o il lavoro per via di pregiudizi diffusi o “paura dell’altro”. La risposta a questa situazione, secondo la presidente dell’Associazione delle donne mozambicane, “è proprio trovare lavoro e creare le condizioni di inclusione per queste persone”, con la possibilità di avere i documenti o imparare la lingua italiana, “e nella mia associazione facciamo proprio questo”.

Ma se le parole secondo alcuni non sono più utili, da un’altra contribuiscono ancora a creare pregiudizi. “In Italia vivono 300mila ucraini regolari, ma di loro la stampa italiana non parla” ha denunciato Oles Horodetskyy, giornalista di origine ucraina, che si dice “stanco” dello stereotipo che colpisce gli europei dell’est, etichettati a volte come “colf e badanti” anche
da alcune testate di punta.

Gli stereotipi cambiano a seconda della comunità di origine, ha avvertito il cronista di origine somala Zakariya Mohamed Ali, che racconta: “Sono contattato dalle testate italiane a lavorare
solo quando in Somalia accade qualcosa di brutto”. E’ il segno che certi Paesi salgono nelle cronache in base a un determinato argomento: nel caso della Somalia, i frequenti attacchi da parte di gruppi armati.

Un tema delicato, questo, che ha alimentato una certa visione negativa verso i musulmani, ma che ancora una volta confermerebbe competenze inadeguate da parte di molti professionisti italiani. “Io provengo dal mondo islamico – ha sottolineato ancora Ejaz – e mi colpisce leggere sui giornali la parola ‘kamikaze’, che è un termine giapponese. Io scrivo invece ‘attacco suicida’, anche per ricordare che secondo l’islam il suicidio è vietato da Dio”.

Secondo Ejaz, per migliorare questa situazione “gli ‘aborigeni italiani’ devono aiutarci, insieme agli stranieri e alle seconde generazioni”. Un ultimo stimolo giunge da Fabrizio Ciocca, sociologo esperto di migrazione musulmana in Italia: “Le diaspore devono farsi sentire soprattutto negli spazi in cui il pensiero è diverso. Oltre ai numeri, va data visibilità anche alle
storie di successo, soprattutto attraverso i social network”. Strumenti di primo piano nel costruire l’opinione pubblica, è stato sottolineato durante l’incontro, nuove fonti e alleati del
giornalismo a condizione di essere ben impiegati.



1 réactions


  • pv21 (---.---.---.75) 6 luglio 2019 19:37

    Protervia > Per le navi Ong non si tratta di inopinate sopravvenienze accidentali, ma di una attività dichiarata ed esercitata in modo sistemico, come un vero e proprio business. Questo implica dei distinguo quando si cerca di coniugare il “dovere” etico morale di salvare delle vite in mare e il correlato “obbligo” di portare in salvo le persone soccorse verso un luogo per loro sicuro. Non spetta infatti al solo “trasportatore” di decidere ogni volta chi dovrà prendersi piena cura di quelli che sono, a tutti gli effetti, degli immigrati. Come non è un diritto del comandante “soccorritore” attraccare liberamente alla banchina del porto da lui prescelto, mentre in alto mare si fanno i trasbordi di naufraghi su navi “inviate” dai paesi noti. Non solo. In quanto attività “ripetitiva” vari sono i potenziali paesi di destinazione e con ognuna delle preposte Autorità possono essere a priori convenuti termini e modalità di esecuzione. Criterio sensato e lineare che però non vivacizza le campagne Ong per la raccolta di copiose donazioni (v. business). Di più sul caso Sea Watch 3 La capitana Carola dichiara di aver commesso un “errore” di manovra andando a “spingere” contro la banchina la piccola motovedetta della GdF che si frapponeva al suo attracco. Secondo Lei la piccola motovedetta si sarebbe dovuta scansare e lasciare libera l’area, non essendo una nave da guerra. La capitana Carola non osa “confessare” che non avrebbe insistito su tale “errore” di manovra se avesse avuto di fronte la stazza di una Fregata della Marina Militare. Ossia: missione altamente “umanitaria” (sofferenze migranti, specie donne e bimbi) che non esclude imporre il braccio di ferro. Del resto per certe navi Ong il tutto si conclude con l’atto di consegna. Dissimulare la protervia non è affatto insolito per Gli “untori” della Parola


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