lunedì 27 maggio 2013 - clemente sparaco

La politica senza speranza

Noi viviamo e respiriamo un’atmosfera pesante di crisi.

La crisi è economica. Essa intacca ormai quella che si chiama l’economia reale, come a dire i nostri standard di vita. Ci affligge la disoccupazione, che è un fenomeno crescente, specie tra i giovani. Ci angustia la caduta del potere d’acquisto, che in situazioni nemmeno più tanto estreme si trasforma in oggettiva impossibilità di arrivare alla fine del mese. Ci sconforta la mancanza di prospettiva per il futuro: non ci attendiamo più nulla di buono.

La crisi è politica, nel momento in cui questa si traduce in uno spettacolo penoso e avvilente di rivalità fine a se stesse, di conflittualità becera, di giochi e giochini che non divertono più. La politica manca di fantasia e soprattutto appare incapace di alimentare speranza. È la politica della disperanza.

Tramontate le ideologie che hanno caratterizzato il recente passato, viviamo la disillusione e il disincanto. Erano false speranze quelle che ci prospettavano le ideologie. Avevano promesso di annullare le contraddizioni della storia e di realizzare in terra il Paradiso. Hanno saputo produrre solo regimi oppressivi, che hanno conculcato le libertà fondamentali e devastato le coscienze. E anche i sistemi liberali non sono da meno, perché in essi le contraddizioni si acuiscono e i mercati, le borse, le finanze, le banche assumono un potere incontrollato ed incontrollabile, che schiaccia interi Stati, popoli ed economie. Le contraddizioni si dilatano su scala globale, nel momento in cui nuove sperequazioni e nuove ingiustizie alimentano conflitti, che si configurano ormai come conflitti di civiltà.

Ci misuriamo ormai con “la fine delle illusioni illuministiche, con la messa in crisi di un modello di sapere che aveva la pretesa di valere come spiegazione universale e totale. Siamo segnati da un diffuso senso di incredulità verso tutti i progetti teorici e pratici fondati sulle capacità dell’uomo di capire, scegliere e costruire. Sperimentiamo in modo drammatico la perdita di direzione della storia e dell’esistenza.

Di conseguenza, oggi sembra venir meno quella fiducia nel progresso, che aveva sorretto il grande progetto del sapere moderno, l’etica, la storia, la politica, la scienza. Si constata che l’altissimo livello di conoscenze raggiunto non ci mette al riparo da un utilizzo violento della tecnologia. Lo sperimentiamo negli effetti dirompenti sull’ecosistema e nel rischio di un uso improprio dell’ingegneria genetica.

Tutte queste inquietudini si traducono in una cultura nichilista, che potremmo anche definire cultura della disperanza, in quanto essa eleva la disillusione e la sfiducia a valori. Questa cultura “avanza nelle società del benessere, caratterizzate da una mentalità efficientistica” e proclama il diritto alla morte piuttosto che il diritto alla vita. Dichiara inutile la sofferenza e toglie qualsiasi spazio alla speranza. La speranza viene, infatti, ridotta alla stregua di una vacua illusione, di un disutile arnese.

La politica è all’insegna di un pragmatismo che sconfina nel cinismo. Alimenta lo sdegno e l’odio, ma non la speranza. La cultura fa lo stesso e non sa che offrire frammenti minuti di verità come cocci di un vaso rotto.

A fronte di tutto questo la speranza forse tornerebbe utile.

Attenzione, la speranza e non l’illusione! Siamo infatti stanchi di illuderci, per non scontare le ricadute della disillusione. Perché la speranza vera ci risolleva dal di dentro. Ha un potere terapeutico. Ci fa stare bene con noi stessi, illumina i nostri sguardi e i nostri sorrisi.

La speranza è qualcosa di rivoluzionario, come scriveva Erich Fromm nel suo libro “La rivoluzione della speranza”. Non c’è niente che sia più controcorrente della speranza oggi. E poi la speranza è virtù teologale.

Attenzione, non vogliamo riesumare vecchi linguaggi che apparirebbero ormai logori né tantomeno proporre o fare prediche. Ma se guardiamo al fondo di questa affermazione scorgiamo qualcosa di veramente profondo. La speranza non è da noi, perché da noi stessi non siamo in grado di concepirla. Essa ci trascende e, come noi, trascende la storia, la cultura, la politica e tutto quanto è opera nostra. Appartiene ad una dimensione altra e quando fa irruzione nella nostra vita, nelle nostre storie, ci immette una forza insperata, irrobustisce la nostra volontà, ravviva il nostro umore e dilata le nostre prospettive. Ci fa, quindi, fare quello che non sarebbe in nostro potere fare.

Non è vero, quindi, che chi di speranza vive di speranza muore.

Chi di speranza vive non è morto dentro e, seppure muore, non per questo dispera.




Lasciare un commento