venerdì 5 giugno 2020 - Fabio Della Pergola

La lunga marcia dei neri americani

La storia degli sforzi per l’emancipazione dei neri americani ha ormai secoli alle spalle, lo sappiamo. Ma gli ultimi sessanta anni presentano delle caratteristiche che possono far meglio comprendere anche gli sviluppi più recenti.

Fino alle lotte per i diritti civili degli anni Sessanta la prospettiva era sostanzialmente quella di costringere la federazione a equiparare i suoi cittadini di colore ai bianchi, incontrando l’opposizione non solo delle frange più estremiste – al cui vertice c’era il Ku Klux Klan – ma anche quella di larga parte dell’opinione pubblica più tradizionalista, in particolare degli stati del sud. Le marce di protesta contro le discriminazioni e il segregazionismo trovarono l’appoggio della popolazione progressista bianca e delle altre minoranze, in particolare quella ebraica, tradizionalmente democratica.

L’intento era quello di integrare la minoranza nera, e su quella scia, anche le altre minoranze etniche, nel corpus sociale anche eliminando, nella legislazione dei singoli stati, attraverso la pressione dello stato federale, gli elementi discriminatori. Il caso più emblematico – dopo quello di Rosa Parks che nel 1956 aveva sancito l’incostituzionalità della segregazione sui pullman pubblici dell’Alabama – fu quello della piccola Ruby Bridges, bambina di colore iscritta nel novembre del ’60, su disposizione di un giudice, in una scuola di bianchi a New Orleans e costantemente accompagnata, per tutto il primo anno scolastico, da quattro agenti del FBI.

Il nemico quindi non era la giustizia bianca, ma quella che era sentita come un'ingiustizia palese anche da parte di tanti bianchi. La prospettiva era un'America più giusta verso le sue tante e diverse componenti.

Solo con Malcom Little, più noto come Malcom X, la strada diventò quella di acuire la separazione fra popolazione bianca e popolazione nera, creando di fatto, nel suo progetto, uno stato a parte per la gente di colore.

Il giovane leader dalla turbolenta adolescenza, si dichiarava comunista e nello stesso tempo aderente alla Nazione dell’Islàm, versione politica di una conversione alla religione islamica, considerata l’unica in grado di essere realmente universalistica, senza barriere di tipo etnico. Una palese rottura ideologico-culturale, prima ancora che religiosa, con un'America prevalentemente cristiana.

In un discorso del 1964, poco prima di essere assassinato, chiarì la sua posizione politica "universalistica", rinnegando i suoi precedenti separatisti: «In passato, è vero, ho condannato in modo generale tutti i bianchi. Non sarò mai più colpevole di questo errore; perché adesso so che alcuni bianchi sono davvero sinceri, che alcuni sono davvero capaci di essere fraterni con un nero. Il vero Islam mi ha mostrato che una condanna di tutti i bianchi è tanto sbagliata quanto la condanna di tutti i neri da parte dei bianchi (…) Oggi i miei amici sono neri, marroni, rossi, gialli e bianchi!».

Abbandonando le posizioni “separatiste” – pur in una prospettiva universalistica priva di qualsiasi aggancio con la realtà – che la Nazione dell’Islàm continuava a sostenere, contribuì a oscurare la rilevanza di questa organizzazione politica, causandone una reazione violenta. Di fatto furono tre suoi membri a essere accusati, processati e condannati per il suo omicidio e l’attuale leader Louis Farrakhan, noto per le sue posizioni fortemente antisemite, ne sarebbe stato il mandante secondo alcune fonti, fra cui una delle figlie di Malcom X che tentò di vendicare il padre attentando alla vita dello stesso Farrakhan.

Una delle conseguenze della sua lotta politica, basata sull’adesione all’islamismo, fu la presa di distanza di buona parte dei neri americani dal mondo ebraico che aveva appoggiato la loro lotta per i diritti civili, pagando il suo impegno con la vita di due dei tre giovani militanti del Civil Rights Movement nel massacro nella contea di Neshoba, immortalato in Mississippi Burning.

Un terzo movimento prese piede nella California governata da Ronald Reagan, su posizioni marxiste-leniniste e terzomondiste: quello delle Pantere Nere, fondate da Huey Newton e Bobby Seale nel 1966, come organizzazione armata finalizzata alla difesa dei giovani afro-americani dai soprusi della polizia e, in seguito, come struttura di rilevante presenza sociale fra le comunità nere di tutti gli States. La loro parabola terminò già ai primi anni ’70 per le divisioni interne e la puntigliosa opera di infiltrazione operata dall’FBI. Ed anche per la rapida diffusione delle droghe pesanti che proprio in quegli anni andavano sostituendo, negli ambienti di opposizione, le sostanze psicotrope più attinenti al mondo variegato e non violento della controcultura hippie. I consumatori americani di eroina decuplicarono: «Sia la cultura psichedelica che i movimenti antagonisti politici vengono devastati, snaturati e decimati dall’eroina. Nel giro di una decina d’anni è tutto finito». In altre parole, «la tossicodipendenza poteva essere esportata nei ghetti, trasformando un potenziale esplosivo politico di quei quartieri in un problema di insicurezza cittadina».

Con l'eliminazione delle più eclatanti disposizioni razziste e segregazioniste e con il collasso delle formazioni politiche separatiste, oggi restano il tradizionale gioco politico, quello che ha portato Barack Obama alla presidenza, o le esplosioni incontrollate di violenza come risposta alla prassi repressiva della polizia e, ovviamente, alle persistenti differenze di ceto rispetto alla popolazione bianca. I casi si ripetono a cadenza regolare, anche se l’America di oggi non è certo più quella degli anni ’60, ma quella della presidenza Trump e dei quattro poliziotti implicati nell’omicidio di George Floyd in un Minnesota governato però da un democratico, in una città, Minneapolis, a guida democratica e con un capo della polizia afroamericano. Come accadde anche sotto la presidenza del democratico Obama, in occasione dell’uccisione di un altro nero, Eric Garner, a New York city nel 2014, per mano di un poliziotto dal cognome italiano, Daniel Pantaleo. Per dire che non è il colore della presidenza a determinare queste violenze.

Oggi il protagonista principale, immortalato con un ginocchio sul collo della vittima per nove interminabili minuti – una prassi praticata 428 volte dal 2012 e che ha già causato la perdita di conoscenza a 59 persone fermate dalla polizia – è Derek Chauvin, già coinvolto in altri 18 casi di “comportamento inadeguato e violento”.

In sintesi il problema sono alcuni agenti bianchi, portatori di un’idea di legittimità della prevaricazione violenta a prescindere dalla legge e da ogni senso di “uso proporzionato della forza”, in special modo contro la popolazione di colore. Oltre che di semplice, banale, senso di rispetto ed empatia per la vita di un essere umano.

Forse è solo “suprematismo” la parola che spiega i motivi di questa predilezione per un atteggiamento implacabile, fino ad essere a suo modo perfino autolesionista (Pantaleo è stato licenziato nonostante non sia stato ritenuto colpevole dalla giustizia, mentre Chauvin oltre che licenziato è stato anche arrestato con l’imputazione di omicidio volontario).

E “suprematismo” si coniuga perfettamente con l’attuale presidenza, che aizza giornalmente alla repressione senza mezzi termini delle rivolte più violente, ma che non disprezza andare pesante anche contro le legittime, secondo la Costituzione, proteste pacifiche. Fino a non escludere di schierare perfino l'esercito americano contro una parte non trascurabile della popolazione americana. Credo che non si sia mai visto prima, ma l'intenzione descrive bene il potenziale esplosivo delle sue esternazioni.

Certo è che i riots in puro stile Joker, gli scontri, le devastazioni, gli incendi e le distruzioni – alimentate dai casi, sembra dimostrati, di qualche infiltrato che ha gioco facile nell'accendere focolai di rivolta – insieme ai saccheggi e a qualche omicidio, chiama vistosamente la repressione. Ogni protesta sociale e politica di questo tipo collassa rapidamente in un caos incontrollato da cui il potere esce ogni volta più forte e irridente.

D'altra parte oggi non sembra esistere un progetto politico che dia senso alla frustrazione dei neri americani, dopo i fallimenti degli anni '70, né il mondo democratico – che ondeggia tra le velleità socialisteggianti del radicalismo, lo sdegno delle stelle di Hollywood e l'adesione sostanzialmente acritica ai valori tradizionali del "sistema" – sembra riuscire a proporre, per ora, personalità e programmi capaci di unificare le tante opposizioni al trumpismo e alle bande armate che fanno palesemente riferimento alla Alt-right e al suprematismo.

Ma se il jokerismo, con la sua idea delirante di poter vincere (sic) saccheggiando un negozio di elettrodomestici o facendo a botte nelle strade con lo strapotere a stelle e strisce, non verrà arginato, il nesso stringente fra l'ingiustizia subìta e la violenza praticata svanirà sempre più dalla mente del popolo americano. E la strada verso la rielezione di Donald Trump si farà sempre più in discesa, nonostante il covid-19, il contestato lockdown e il crollo dell'economia.

A meno che non sia la destra repubblicana – ma liberale – a prendere finalmente le distanze dal più radicale dei suoi presidenti fino a, chissà, boicottarne il secondo mandato.

Come ha detto James Mattis, uno dei piu' rispettati generali americani, un conservatore di ferro, che ha anche servito come Ministro della Difesa agli inizi dell'amministrazione Trump, «...lo slogan nazista per distruggerci era: "Dividi e conquista". La nostra risposta americana è "Nell'unione c'è la forza". Dobbiamo richiamarci a questa unione per superare questa crisi (...) Donald Trump è il primo presidente della mia vita che non cerca di unire il popolo americano – non finge nemmeno di provarci. Invece cerca di dividerci. Stiamo assistendo alle conseguenze di tre anni di questo sforzo deliberato (...) Possiamo unirci tra di noi senza di lui, attingendo ai punti di forza insiti nella nostra società civile (...) Dobbiamo respingere e ritenere responsabili coloro che sono in carica e che vorrebbero fare beffe della nostra Costituzione (...) Solo adottando un nuovo percorso - il che significa, in verità, ritornare al percorso originale dei nostri ideali fondanti - saremo di nuovo un paese ammirato e rispettato in patria e all'estero».

Se la destra repubblicana tornerà al "percorso originale" il sistema liberale potrà continuare ad esistere, con tutte le storture e le ingiustizie della sua storia, ma senza più la spada di Damocle del progetto di superamento in senso reazionario attivato da Trump. O dal suo ex consigliere Bannon trasferitosi in Europa con gli stessi obiettivi.

Può darsi che la conclusione di quel progetto reazionario sia più vicina di quanto si immagini, grazie all'ennesimo nero ucciso da uno stupido poliziotto bianco ammalato di violenza. Lo vedremo fra cinque mesi.

Ma per i neri americani la marcia sarà ancora lunga.

Foto: Geoff Livingston/Flickr



2 réactions


  • Fabio Della Pergola Fabio Della Pergola (---.---.---.107) 7 giugno 2020 20:00

    Capisco e condivido l’indignazione di chi manifesta contro un brutale assassinio a sangue freddo. Delle ragioni (quali?) della destra italiana in piazza oggi invece non me ne può importare di meno.


  • Fabio Della Pergola Fabio Della Pergola (---.---.---.107) 8 giugno 2020 14:00

    Trump prese tre milioni di voti meno della Clinton. Alle elezioni di midterm ha preso dieci milioni di voti in meno. Basta lasciarla governare la destra e si liquida da sola.


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