La corsa dei leader per evitare la Sarajevo d’Ucraina
Vladimir Putin, Joe Biden e Volodmyr Zelensky tengono a freno, per ora, i rispettivi “partiti della guerra” nella sfida strategica tra Russia e Ucraina. Emmanuel Macron sulle orme di Charles de Gaulle tiene aperto il dialogo tra Europa e Russia, Olaf Scholz e la centralissima Germania vogliono conciliare lealtà atlantica, rilevanza strategica, commerci con Mosca.
Mario Draghi prepara una missione diplomatica tra le più importanti dal viaggio di De Gasperi negli Usa nel 1947 e dialogherà con Putin. I leader non vogliono la guerra, la crisi riflette anche profonde fratture interne a Russia, Ucraina e Occidente sul confronto con le controparti. Ma è il momento della vera politica, della diplomazia e del confronto umano. La guerra non è un destino inevitabile. E più indizi ce lo confermano.
Punto primo: la maskarovka esplicita di Putin. Abilissimo a sorprendere ucraini e occidentali con una mobilitazione militare al confine, a consolidare una serie di “parate e risposte” alle mosse e alle accuse euroatlantiche, a consolidarsi politicamente tra Crimea, Donbass, Mar Nero mostrandosi aperto a trattative. Ma anche a giocare a viso aperto con manovre diversive che lo tengono al riparo dalle accuse dei “falchi” interni a Russia Unita e alle Forze Armate di voler dare per persa l’Ucraina. Da Vjacheslav Volodin, presidente della Duma, ai leader delle repubbliche secessioniste di Donetsk e Lugansk, il partito della guerra nel campo russo è forte, i malumori espressi da tempo sul Corriere Militare-Industriale e altre testate legate agli apparati federali verso Putin non sono secondari. Ma il presidente, per ora, non affonda il colpo.
E altrettanto non fa Joe Biden, che giostra molto bene le due anime di un’amministrazione lacerata e ancora sotto scacco dopo la rotta afghana. Al partito del confronto duro con Mosca si è iscritto, tessera numero uno, il Segretario di Stato Tony Blinken, assieme alla vicepresidente Kamala Harris e al National Security Councilor Jake Sullivan. Ma Biden fa soprattutto affidamento sul partito della distensione che vede al suo interno John Kerry, il più abile diplomatico americano, scelto dal presidente come inviato speciale sul clima ma capace di grande libertà d’azione, e il capo della Cia William Burns, che proprio dal dialogo tra le intelligence ha fatto partire un filo sotterraneo con Mosca negli ultimi mesi. La strategia “open-source” di divulgazione delle intercettazioni delle mosse russe depotenzia il partito del confronto duro e mostra che l’America ha la guardia alta consentendole di non dipendere dalla “vedetta” ucraina.
Nel Paese conteso il presidente Zelensky deve difendersi dall’accusa dei filorussi di essere un burattino occidentale, ma anche evitare l’Opa sulla sicurezza nazionale dei gruppi di estrema destra, come Pravij Sektor, che non vedono l’ora di aprire il conflitto con la Russia. L’ex comico diventato capo di Stato ha avvertito delle pressioni russe sull’Ucraina ma offerto anche uno spiraglio diplomatico negli utlimi giorni dichiarandosi disposto a desistere alla volontà di entrare nell’Alleanza Atlantica. In un’intervista al sito di notizie Rbk Ucraina Zelensky ha detto che gli Usa e la Russia devono firmare un accordo che preveda immediate “garanzie di sicurezza per l’Ucraina” mentre per un’adesione di Kiev alla Nato sarà necessario attendere forse anche “anni”.
L’Europa nel frattempo è sulle spalle di Scholz e Macron. Dalla crisi ucraina l’Europa ha un solo modo di uscirne vincitrice: accodarsi a Macron e Scholz. Perché l’asse franco-tedesco ha capito tutto, fin dal principio, e ha lavorato incessantemente alla de-escalazione, cercando di sabotare sia le prospettive di guerra che le volontà dell’asse liberal-clintoniano che preme su Biden di disaccoppiare Europa e Russia. Emmanuel Macron e Olaf Scholz lo hanno capito da tempo, per questo il primo era andato in Russia per parlare con Putin e il secondo negli States per discutere Biden, rifiutandosi peraltro di armare l’Ucraina. E fonti Nato qualificate sentite da Dissipatio parlano di un Macron particolarmente attivo e ascoltato da Putin, che potrebbe essere il vero pontiere del rilancio dei dialoghi “formato Normandia”.
Putin, Biden, Zelensky, Macron e Scholz si stanno, dunque, comportando da statisti accorti. Ma anche nel 1914, dopo il colpo di pistola di Sarajevo, nessuno voleva fondamentalmente la Grande Guerra salvo trovarsi poi travolto dalle conseguenze dell’escalation dell’estate più rovente della storia europea. Ebbene, sull’Ucraina i leader appaiono “pompieri” intenti a disinnescare i rispettivi partiti della guerra per evitare che un qualsiasi incidente diventi il colpo di pistola di Sarajevo: gli spari dei filorussi oltre il confine ucraino del Donbass, le manovre cyber, le azioni ucraine contro i separatisti, le esercitazioni “atomiche” russe, la minaccia di sanzioni devono rimanere entro il livello di guardia. Saprà Mario Draghi accodarsi alla partita? Il premier ha una chanche clamorosa di dimostrarsi grande statista a sua volta mostrando di saper trasformare nella mediazione con Putin lo standing delle sue relazioni internazionali in un asset di politica estera. Consolidando un partito della pace che ha membri di alto rango anche nell’ora più tesa della crisi orientale. E che fa ben sperare per future trattative.