mercoledì 16 dicembre 2020 - Osservatorio Globalizzazione

La Turchia alla conquista del mondo russo

Un giocatore di rilevanza internazionale sta scommettendo ed investendo sui Paesi che compongono il cosiddetto mondo russo, o che da esso sono influenzati, ma non è il Cremlino: è la Turchia. I rischi di questa partita pericolosa sono tanto alti quanto i potenziali profitti, e Recep Tayyip Erdogan ha mostrato quanto per lui sia importante la turchizzazione dei Balcani e dell’Asia russa nel corso della pandemia di Covid19.

I Balcani, la polveriera d’Europa per antonomasia, sono stati duramente colpiti dall’emergenza sanitaria per via della scarsa qualità dei loro sistemi ospedalieri, della povertà diffusa, dell’assenza di servizi basici in molte aree rurali e della presenza pervasiva di ghetti rom dove l’implementazione della quarantena si è rivelata difficile, quando non impossibile. Queste sono le ragioni per cui Paesi come Romania e Serbia hanno a lungo guidato la classifica regionale in termini di infezioni e morti.

La Cina ha svolto un ruolo di primo piano nel teatro balcanico, ma la vera protagonista di quella competizione geopolitica combattuta a colpi di carichi umanitari è stata la Turchia.

Ankara, in coordinamento con l’Alleanza Atlantica, ha inviato tonnellate di aiuti umanitari ad ogni Paese della penisola, nessuno escluso: Romania, Bulgaria, Macedonia del Nord, Kosovo, Serbia, Albania, Bosnia ed Herzegovina, Montenegro.

Serbia e Bosnia hanno ricevuto più aiuto di ogni altro e questo dovrebbe spaventare Mosca dal momento che stiamo parlando degli ultimi Paesi nella regione liberi dall’Alleanza Atlantica.

Lo scorso 8 aprile un aeroplano turco partito da Incirlik atterrava a Belgrado, carico di aiuti (mascherine, tute protettive, strumentazione ospedaliera, strumenti diagnostici) da riorientare in cinque Paesi: Serbia, Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Montenegro e Macedonia del Nord. Era stata Belgrado, però, la maggior ricettrice degli aiuti di quel cargo che, fra le altre cose, includeva 100mila mascherine, 2mila tute protettive, 1500 test diagnostici.

Inoltre, la diplomazia del corteggiamento di Ankara è stata largamente supportata dalla grande imprenditoria in ogni fase della pandemia. Sempre rimanendo in Serbia, il gigante turco dell’edilizia Tasyapi ha donato 25 letti per la terapia intensiva, 6 aspiratori chirurgici, abbigliamento sterile e strumentazione ospedaliera. Tasyapi è un nome che potrà risultare sconosciuto ai più, ma nei Balcani occidentali è molto noto perché sta attualmente costruendo l’autostrada Sarajevo-Belgrado.

Sebbene sia vero che Belgrado è un bastione del Cremlino e che la sua caduta nell’orbita occidentale sembra improbabile nel prossimo futuro, il protagonismo di Ankara ci dice qualcosa sul domani, sull’ordine internazionale post-pandemico.

Serbia a parte, la Turchia è stata fra i grandi protagonisti della guerra degli aiuti umanitari anche in altri teatri geopoliticamente rilevanti per Mosca, come la Bosnia, l’Ucraina, il Caucaso meridionale e l’Asia centrale ex sovietica.

Partiamo dalla Bosnia. Il Paese è composto da due entità federate la cui coesistenza è sempre più conflittuale e la cui divisione è possibile che aumenti nel dopo-pandemia. Infatti, mentre la Russia, la Cina e la Serbia hanno inviato – e stanno inviando – aiuti alla Repubblica Serba di Bosnia, la Turchia ha “invaso” la controparte bosgnacca con tonnellate di carichi umanitari. Si è assistito, in pratica, all’accentuazione di una linea di demarcazione nell’ultimo avanzo dell’artificiosa Iugoslavia.

La diplomazia delle mascherine della Turchia nei Balcani è una delle tante espressioni del corpo ideologico che ne sta guidando l’agenda estera sin dal collasso dell’Unione Sovietica e che non è semplicemente basata su ambizioni neo-ottomane, come spesso si crede erroneamente, poiché è una combinazione complessa di panturchismo, nazionalismo islamico e turanismo.

Quest’ultima è un’ideologia nata dalle menti di pensatori ungheresi e turchi nel tardo diciannovesimo secolo per arrestare la corsa del panslavismo e del pangermanesimo, le due forze che insieme riscrissero la geografia dell’Europa centro-orientale e dei Balcani. Il turanismo, in breve, si appellava ai popoli di origine asiatica residenti in Europa, come i magiari, i turchi, i tatari, i finni, i gagauzi, affinché riscoprissero la loro connessione spirituale con l’Oriente, la loro vera casa, e si unissero in un’alleanza in ragione del loro passato ancestrale.

Il turanismo è anche uno dei vettori ideologici della politica estera di Fidesz, il partito di governo dell’Ungheria, e ha effettivamente condotto il Paese a stabilire dei partenariati strategici ad Oriente, con la Turchia, il Giappone e gli –stan dell’Asia centrale. Ungheria e Turchia hanno unito gli sforzi in numerosi settori: energia, cultura, turismo, diplomazia, commercio, e hanno persino cambiato i loro curricula universitari in modo tale da porre maggiore enfasi sulla loro fratellanza spirituale panturanica.

Il turanismo ha trasportato l’Ungheria in Asia centrale; recentemente il governo Orban è riuscito ad entrare nel Consiglio Turco in qualità di stato osservatore e presto potrebbe richiedere la piena adesione. Perché parlare di questo? Perché il Consiglio Turco è uno dei principali strumenti geopolitici al servizio di Ankara, indubbiamente il più influente per quanto riguarda la promozione degli interessi turchi nello spazio postsovietico. Ed è proprio il Consiglio Turco che sta causando l’allontanamento tra la Russia e gli –stan, un successo del quale sono contenti anche gli Stati Uniti.

La Casa Bianca è pienamente consapevole del protagonismo crescente di Ankara negli –stan, poggiante su una fitta rete di iniziative, organizzazioni, entità, università, organizzazioni non governative e gruppi di pressione promuoventi il panturchismo e il nazionalismo islamico, e l’amministrazione Trump ha cercato di approfittare di questo cambio di paradigma rivoluzionario per ridurre l’influenza russa nella regione. Un’eredità che, probabilmente, verrà raccolta da Joe Biden.

La recente visita di Mike Pompeo negli –stan deve essere contestualizzata in questo panorama di grande competizione fra i grandi giocatori dell’Asia, che vede l’asse turco-americano da una parte e il blocco sino-russo dall’altra. È stato Pompeo stesso a svelare le ambizioni di Trump: pressioni su Tashkent affinché non entri nell’Unione Economica Eurasiatica (UEE) e pressioni su Nur-Sultan affinché si unisca all’agenda uigura.

Le capacità dell’asse turco-americano di condizionare le politiche centroasiatiche sono state fino ad oggi colpevolmente e largamente sottovalutate. Prima di tutto, si pensi al gioco del temporeggiamento che l’Uzbekistan ha messo in piedi con il Cremlino per quanto riguarda l’adesione all’UEE: dopo quattro anni di trattative, a marzo il governo uzbeko ha annunciato che sarebbe entrato nell’organizzazione in qualità di membro osservatore per capire se i benefici eccedano i rischi oppure no.

Eppure, nel settembre 2019, quando si trattò di prendere una decisione riguardante l’accesso nel Consiglio Turco, il governo uzbeko non ci pensò due volte: inviò la richiesta per la piena adesione. E il tutto avvenne nell’arco di un mese.

Ed è precisamente attraverso il Consiglio Turco che Erdogan sta cercando di espandere l’influenza del suo Paese nella regione, con l’aiuto e la complicità della pandemia. Decine di tonnellate di aiuti umanitari sono stati inviati in ogni –stan, i quali hanno a loro volta aiutato l’Ungheria nel segno della fratellanza turanica, e l’organizzazione ha svolto un ruolo-guida nel gestire i movimenti dei carichi, ricevendo il plauso del Ministero degli Esteri turco.

Sempre rimanendo in tema di Consiglio Turco, i suoi membri hanno appoggiato all’unanimità l’Azerbaigian nel corso della guerra nel Karabakh Superiore e stanno iniziando a discutere la possibilità di trasformare l’ente in qualcosa di più, in un’organizzazione semi-federale dello stile dell’Unione Europea; fatto, quest’ultimo, che impatterebbe direttamente e negativamente sull’UEE del Cremlino. I membri del Consiglio Turco, inoltre, sono sempre più legati ad Ankara in settori-chiave come infrastrutture, tecnologia e difesa. Il Bayraktar TB2, il giannizzero dei cieli, ha conquistato prima l’Azerbaigian e poi il Kazakistan; mentre i giganti dell’alta tecnologia turca stanno portando avanti una diplomazia dei parchi tecnologici, che prima ha toccato l’Uzbekistan e nel dopoguerra è sbarcata in Azerbaigian.

Infine vi è il caso dell’Ucraina, che durante la pandemia ha chiesto e ricevuto soccorso da parte della Turchia e che recentemente ha manifestato l’ambizione di entrare a far parte del Consiglio Turco. La Sublime Porta è ormai uno dei partner strategici di Kiev sin dal dopo-Euromaidan e la relazione è diventata ancora più intensa da quando nella presidenza oltre il Mar Nero si è insediato Volodymyr Zelensky. I due capi di Stato, infatti, sembra che vadano d’accordo su ogni dossier rilevante: la sicurezza regionale, lo status della Crimea, la difesa, il commercio, la questione tatara.

Non dev’essere sottovalutato il fatto che la Turchia abbia lavorato in coordinamento con la Nato per aiutare tutti i paesi suscritti, perché questa è l’ennesima prova che il matrimonio di convenienza fra Erdogan e Vladimir Putin è in realtà un doppiogioco che gode del supporto e dell’approvazione della Casa Bianca. L’obiettivo è quello di confondere il Cremlino, facendogli credere che la Turchia si stia effettivamente allontanando dall’Occidente e creando divisioni; quando così non è.

Sembra che il piano stia funzionando: prima l’affare degli S400 e poi gli scontri in Siria, Paese dal quale Erdogan non ha intenzione di andarsene, sullo sfondo dell’infiltrazione perniciosa nello spazio postsovietico e della promozione del separatismo all’interno degli stessi confini russi.

Quest’ultimo punto si ricollega a ciò che Mesut Hakki Casin, il consigliere di Erdogan, ha dichiarato all’indomani della crisi di Idlib di febbraio: “Abbiamo combattuto la Russia sedici volte in passato, e la combatteremo ancora […] La Russia verrà distrutta dall’interno“. Il riferimento di Casin era al potenziale uso da parte turca dei milioni di musulmani che abitano in Russia per scatenare rivolte e guerre civili; in una parola sola: implosione.

La comparsa di scenari in stile Cecenia nelle repubbliche russe a maggioranza turcica e musulmana non è così improbabile dal momento che già oggi entità finanziate da, o legate a, Ankara stanno diffondendo e supportando la polarizzazione interetnica, la radicalizzazione religiosa e i sentimenti separatisti. Sta accadendo dal Tatarstan alla Jakuzia, da Tuva alla Bashkiria.

Nei giorni della pandemia, del panico e dell’anarchia, sono state gettate le basi di un nuovo ordine internazionale di cui vedremo meglio i contorni fra alcuni mesi. Per ora sappiamo che la Turchia è stata tra i vincitori della guerra degli aiuti umanitari: per prima ha compreso cosa stesse accadendo e cosa avrebbe potuto accadere.

L’acquisto di ulteriore influenza su ciò che resta del mondo russo, sempre più ristretto e circondato, è costato un pugno di mascherine. Se il Cremlino non sarà in grado di elaborare una contro-strategia adeguata per la preservazione sotto la propria influenza dello spazio postsovietico, i sogni di Zbigniew Brzezinski di una Russia completamente accerchiata all’esterno e condannata ad implodere per via delle insurrezioni all’interno potrebbero avverarsi.

Foto: Wikimedia




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