martedì 2 novembre 2021 - Osservatorio Globalizzazione

La Rivelazione e la Legge: l’affascinante complessità del diritto islamico

Per shari’a si intende, prima ancora del diritto islamico, la fonte primaria da cui tale diritto prende vita. Il corpus giuridico costruito sulla base delle fonti, primarie e non, tra VIII e XI secolo, è detto fiqh.

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Il Corano per i fedeli musulmani è parola letterale di Dio trasmessa a Muhammad nella “Notte del Destino” del 610 e poi ripetuta da li al 632. Trasmesso inizialmente oralmente, non si ebbero estensive trascrizioni sino al 650: ancora oggi, l’oralità e la capacità di mandare a memoria il testo coranico è segno di prestigio nel mondo islamico. La trascrizione del Corano si accompagnò alla distruzione delle versioni “apocrife” e alla diffusione di un canone stabilito ai tempi del terzo Califfo, Uthman. Nel testo le sure venivano elencati in ordine decrescente di lunghezza, cosa che porta i passaggi relativi al secondo periodo della Rivelazione di Muhamadd (quello di Medina, 622-632) a essere all’inizio del testo.

La rivelazione e il diritto

La Rivelazione meccana si occupava principalmente di questioni teologiche ed escatologiche, dei principi regolanti il rapporto tra Dio e l’uomo nella nuova religione. La seconda fase medinese invece era maggiormente incentrata sulla vita quotidiana, sui rapporti interpersonali, e costituisce la base “sacra” principale delle prescrizioni legate al diritto islamico. Esse sono contenute in sure più aride stilisticamente parlando delle omologhe meccane. Gli esegeti musulmani hanno da sempre analizzato in maniera molto raffinato il Corano dal punto di vista lessicale, storiografico e contenutistico per datare e contestualizzare le 114 sure. Questo apre a considerazioni sulle apparenti contraddizioni contenute nel testo coranico, considerate parte dal disegno divino agli occhi del credente ma che potrebbero rappresentare ostacoli nel momento di applicazione pratica della Legge (vedi esempi su slide), particolarmente per il diritto di famiglia, per il quale il substrato coranico è maggiore. Gli interpreti hanno introdotto la regola secondo la quale il versetto datato in maniera posteriore rispetto a quello con cui è in contraddizione è considerato valido e passibile di applicazione. La teoria dell’abrogazione si basa a sua volta sulla Rivelazione, precisamente sui versetti 2, 106 e 13, 39 (“Iddio cancella quel che vuole e quel che vuole conferma).

Come per il Cristianesimo, la diffusione di un canone stabile e cristallizzato per l’Islam richiese secoli. A ciò diede un contributo pratico la sistematizzazione della stessa ortografia della lingua araba, la cui grafia evolvette dalle prime semplici versioni originarie, molto simili all’ebraico, a seguito del contatto avuto dagli Arabi con altre popolazioni durante la loro impetuosa espansione in Medio Oriente e nel bacino del Mediterraneo. La lingua araba fu perfezionata sulla scia dell’espansione geografica dell’Islam.

Oggigiorno, nessuno nell’Islam dubita dell’autenticità della vulgata uthmaniana, sebbene fino al X secolo gli sciiti accusassero Uthman di aver introdotto correzioni e di aver cassato alcune parti dalla Rivelazione per legittimare la propria visione dell’Islam e mettere in condizioni di irrilevanza la corrente sciita.

Il dibattito verte essenzialmente sull’interpretazione del testo sacro. L’opinione prevalente tra i sunniti propendeva per l’applicazione della teoria dell’abrogazione, della lettura letterale dei versetti e dell’applicazione a casi simili attraverso lo strumento dell’analogia con casi coranici o della vita del Profeta. Tale visione inchioda la lettura del Corano a un periodo storico ben preciso, e risale alla concezione dei musulmani dell’eternità del Corano.

Dogmi e ortodossia: un diritto che plasma la società

La questione dell’ortodossia nell’Islam è delicata e attuale alla luce della speculazione massiccia e della confusione che si fa spesso sulla struttura della religione musulmana: all’interno dell’Islam manca una gerarchia paragonabile a quella della Chiesa Cattolica, manca inoltre una struttura organizzata del clero intermediario tra uomo e Dio. Tuttavia, su due dogmi tutti i musulmani concordano senza necessità di discussione: l’unicità di Dio e l’autenticità della Rivelazione.

Oltre a ciò, l’assenza (tanto tra gli sunniti quanto tra gli sciiti) di una struttura apicale (anche tra i più strutturati sciiti manca una figura paragonabile al Papa cattolico) impedisce la costituzione di un’effettiva ortodossia “istituzionale”. Nell’Islam è più diffusa l’ortoprassi: il “buon musulmano” crede nei due dogmi ed è fedele nell’applicazione dei Cinque Pilastri.

Versetti “esoterici” e mistica

Alcuni versetti del Corano sono ritenuti avere un significato “esoterico”, la cui conoscenza è riservata a coloro che hanno effettuato un percorso di studio e crescita interiore tale da averli portati a un livello “mistico” (i sufi tra i sunniti, gli imam tra gli sciiti). Persone particolarmente dotate intellettualmente potranno seguire, secondo alcuni interpreti, il percorso mistico di analisi della shari’a, mentre altri dovranno accontentarsi dell’adeguamento alla Legge; altri, invece, ritengono che il vero credente si distingua proprio per la sua volontà di ricercare il significato nascosto del testo, andando oltre il singolo livello letterale. Il Corano stesso giustifica la via della ricerca mistica: in un preciso versetto Dio dichiara a Muhamadd che nella sua Rivelazione vi sono alcuni versetti allegorici, di interpretazione altamente difficile. Dio aggiunge che esclusivamente Lui possiede la Verità riguardo la loro interpretazione ma gli uomini di buon intelletto possono andare oltre la comprensione normale del testo. Tale versetto fu considerato dai primi sciiti come uno degli “apocrifi” di Uthman, reso ancora più criptico dall’assenza di punteggiatura.

Si è in seguito diffusa un’interpretazione storicistica del Corano, che guarda ai principi universali per derivare dei principi giuridici di applicazione attuale, discostandosi da quelli più strettamente legati al contesto arabo del VII secolo.

Dal Corano al diritto

Solo il 10% dei versetti coranici si prestano a essere trasformati in situazioni giuridiche, ma generalmente si tratta di alcuni tra i versetti più lunghi. Nel formarsi della dottrina giuridica islamica, gli interpreti hanno deciso più volte se mantenere come tali tante prescrizioni interne al Corano o se rielaborarli in differente maniera: diversi ordinamenti musulmani hanno mantenuto l’istituto della poligamia ma si sono discostati nell’interpretazione della parità di trattamento da riservare alle varie mogli, introducendo in alcuni casi l’obbligo del rispetto di parametri finanziari per concedere la possibilità di un secondo matrimonio a un uomo, cosa che in alcuni casi ha portato alla diffusione del matrimonio poligamo come status symbol di benessere. Paesi come Tunisia o Turchia hanno invece abbandonato tale istituzione (la seconda ha addirittura completamente disconosciuto la shari’a come fonte del suo ordinamento, mentre la Tunisia dichiara di mantenerla come principio base e di abrogare determinati istituti “in nome dell’Islam”).

Il Corano da solo non spiega l’attuale diritto islamico: confrontandosi con culture sviluppate e organizzate, come quella bizantina o persiana, l’Islam sviluppò ulteriori raffinati istituti, oggi fonti ritenute valide: ad esempio la Sunna, insieme di esempi di vita attribuiti a Muhammad o ai suoi seguaci, essendo il Profeta ritenuto un uomo straordinario, depositario di diritti (e doveri) maggiori di quelli dei musulmani comuni e indicato come esempio di vita, condotta morale e comportamento ai fedeli.

Una gerarchia precisa

Il Corano è ritenuto epistemologicamente superiore alla Sunna, che può esplicarlo, consolidarlo o approfondirlo ma non contraddirlo. I teologi sunniti ritengono che la Sunna elenchi tradizioni ben consolidate capaci di completare la Rivelazione coranica su alcuni temi specifici. Ad esempio, nel Corano non si trova alcuna menzione alla lapidazione come pena per relazioni sessuali illecite, contenuta invece nella Sunna. Introducendo la lapidazione nell’ordinamento, i giuristi di età classica (VIII-X secolo) hanno interpretato parole o decisioni di Muhammad secondo le quali la lapidazione fosse in alcuni casi ammissibile, sebbene vi siano margini di elasticità nell’interpretazione: ad esempio, nel 1975 Gheddafi, riportando l’ordinamento libico alla matrice islamica e disconoscendo l’ordinamento europeo, si attenne alla prescrizione coranica di punire determinati reati con la fustigazione, mentre dopo il 1979 l’Iran degli ayatollah inserì nell’ordinamento la lapidazione prestando fede alla Sunna, così come scelse di fare il Pakistan durante la dittatura militare degli anni Ottanta.

L’interpretazione del Corano è soggetta dunque a diversi punti di vista, e subordinata all’approvazione, al consenso (ijma) della comunità. I racconti della Sunna erano originariamente migliaia, molti dei quali in contraddizione tra loro. Nel X secolo si decise dunque di mettere per iscritto, in un canone più formale, i racconti ritenuti veri o veritieri. Il criterio per ritenerli tale si basò sullo studio di due parti comune a tutte le tradizioni della Sunna: l’elenco delle fonti che riportano ogni racconto, la catena di trasmissione, valutate in base alla loro attendibilità (o effettiva esistenza storica) e la sua concordanza con il significato manifesto del testo del Corano. Tale approfondito studio fu un forte volano per l’evoluzione della storiografia e della geografia in ambito musulmano. Un importante trasmettitrice della Sunna fu la stessa moglie del Profeta, Aisha.

Tra l’VIII e l’XI secolo emersero tre categorie di attendibilità dei racconti della Sunna: autentico, buono e debole, categorie ulteriormente rielaborate in tempi più vicini a noi. I versetti più misogini e androcratici della Sunna, ad esempio, sono stati a lungo ritenuti autentici o buoni, sebbene più recentemente molti di essi siano stati riclassificati come “deboli”. La classificazione ha una forte conseguenza in materia di approfondimento o interpretazione del Corano. Nel mondo sunnita si costituirono 6 raccolte di passi della Sunna ritenuti autentici tra IX e X secolo, a cui se ne aggiunsero altre quattro provenienti dall’area sciita tra X e XI secolo. Il totale dei racconti è di decine di migliaia, con diverse ripetizioni e alcune contraddizioni.

L’interpretazione del diritto

Lo sforzo interpretativo del giurista che guarda alle fonti originarie del Corano per applicarlo a casi concreti (itjihad) è fortemente valorizzato e spesso considerato, alla lunga, come una fonte esso stesso. Nel periodo classico dell’Islam, le versioni estremistiche wahabite o salafite, che pretendono di essere depositari della Verità assoluta sull’Islam, erano sconosciute: potendo conoscere solo Dio la Verità, acquisiva valore lo sforzo del giurista che tentava di andare oltre il testo letterario forte della sua conoscenza dell’arabo, del Corano , della Sunna e dei metodi interpretativi e non doveva per forza essere uomo: vi furono, e vi sono tuttora, diversi casi di donne divenute autorevoli interpreti del Corano. Nell’Islam classico si definì la figura del muftì, ovverosia colui che era legittimato a emettere pareri autorevoli (fatwa) per quanto non vincolanti, che doveva essere necessariamente uno studioso di tale livello, un mujtahid. Oggi proliferano sedicenti muftì, e si è diffusa la visione della fatwa come parere avente forza di vera e propria legge.

Per i sunniti, imam è un titolo onorifico assegnato agli esperti di Islam a cui spetta il compito di condurre la preghiera; per gli sciiti, invece, l’imam coincide col successore del Profeta, capace con le sue capacità spirituali di capire il testo coranico e di assumere il ruolo di guida politica della comunità dei credenti, e tale “titolo” spetterebbe ai discendenti maschi di Alì e Fatima, moglie di Maometto cui andò sposa dopo la morte del Profeta.

Il consenso (ijma) nasce dalla decisione dei giuristi più autorevoli dell’introduzione di tradizioni, opinioni o consuetudini ritenute coerenti e non in contraddizione coi principi delle prime due fonti e assieme ad esse istituzionalizzatisi nel corpus della dottrina giuridica islamica. Ad esempio, alcuni comportamenti del Profeta o decisioni dei primi quattro Califfi trovarono ospitalità nel diritto islamico: il califfo Abu Bakr introdusse pene corporali per chi avesse deciso di consumare bevande alcoliche, che i suoi successori decisero di inasprire ulteriormente, decisioni approvate dai giuristi che andavano ben oltre l’originaria prescrizione di Maometto, che in un racconto si limitò a colpire con un sandalo un compagno autoaccusatosi di tale peccato.

Per il consenso dei giuristi è stato inoltre introdotto il metodo analogico per la risoluzione di controversie, che portò all’introduzione di norme analoghe a quelle imposte da Corano o Sunna ma non esplicitamente iscritte. Nei primi secoli, i giuristi si riunivano informalmente in circoli di incontri e approfondimento cui erano invitate figure stimate delle comunità e rispettate, che col tempo si istituzionalizzarono in vere e proprie scuole di diritto islamico (madrassa), che tra il X e l’XI secolo pubblicarono i primi codici di diritto islamico  ritenuti canonici.

Secondo l’Islam classico, è possibile violare un ragionamento analogico per evitare situazioni di difficoltà per la comunità o per il bene pubblico (maslaha). Il maslaha divenne un concetto fortemente impugnato da diversi giuristi riformisti a partire dall’Ottocento per portare a revisioni del diritto islamico in diversi contesti statali o regionali.




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