martedì 2 luglio 2019 - Osservatorio Globalizzazione

La Globalizzazione cinese: gli interessi marittimi

In questo quinto appuntamento con la Globalizzazione cinese parleremo degli interessi che stanno portando la Cina sempre più verso il mare. Interessi che sono sia regionali che globali.

Interessi regionali: la questione taiwanese[1]

Come abbiamo visto nello scorso appuntamento, per la Repubblica Popolare Cinese si rende evidente l’importanza strategica di una forte marina militare proprio nell’ambito delle relazioni con il suo scomodo vicino Taiwan. Tra esercitazioni, riappacificazioni e provocazioni è utile ripercorrere brevemente la storia dei rapporti tra le due cine.

Dopo la Seconda guerra mondiale e l’occupazione da parte dell’Impero giapponese, l’isola di Taiwan ritornò sotto il controllo del governo cinese del Kuomintang. Ma la Cina in quegli anni è scossa dalla guerra civile tra i comunisti di Mao ed il governo del Kuomintang che porterà nel 1949, grazie alla vittoria comunista, alla fondazione della Repubblica Popolare Cinese a Pechino. Il governo sconfitto decise di ritirarsi a Taiwan proclamando a Taipei la Repubblica di Cina in aperto contrasto con la nuova Repubblica Popolare. I due stati non si riconoscono tuttora.

Per tutti gli anni ’50 grazie anche all’appoggio USA tramite la CIA, Taiwan poté difendere i pochi possedimenti continentali nella provincia di Fujian e sostenere in funzione anticomunista la guerriglia in Birmania, nei territori meridionali della Repubblica Popolare. La Repubblica di Cina del Taiwan si assicurò il supporto e la difesa degli USA grazie alla sua posizione strategica per lo U.S. Army impegnato nella Guerra di Corea. Sfruttando questo pretesto infatti, Harry Truman ordinò alla marina statunitense di occupare le acque dello stretto in modo da avere facile accesso alla Corea ed ai rifornimenti presso Taiwan. Una volta terminata la Guerra di Corea nel 1953 gli USA persero progressivamente interesse nella difesa di Taipei.

Nel 1955 e nel 1958 prendono luogo la prima e la seconda crisi dello Stretto che vedono entrambe un tentativo di invasione cinese di Taiwan e che vengono entrambe interrotte dall’intervento USA prima in favore di Taipei e poi bloccando i rifornimenti all’isola per mantenere l’equilibrio nella zona. Dopo questi fatti Cina e Taiwan rimasero formalmente in guerra anche se i conflitti militari vennero rimpiazzati dalla sola propaganda. Nel 1979 le relazioni tra Taiwan e gli USA vengono interrotte ed il neopresidente Chiang Ching-kuo si vide costretto ad intraprendere la strada dello scongelamento verso Pechino. Nel 1986 a seguito del dirottamento di un aereo cargo della China Airlines avviene una svolta nelle relazioni tra i due paesi pur senza che l’uno riconoscesse formalmente l’altro.

Nel 1992 le due parti siglarono il Consenso del 1992 in cui convenivano entrambe nel riconoscimento di un’unica Cina pur avendo differenti visioni politiche su di essa. Nonostante i rapporti sempre meno freddi nel 1995/96 la Cina tentò di influenzare le elezioni taiwanesi in favore del Kuomintang e contro il Partito Democratico Progressista (DPP), più apertamente indipendentista, con le esercitazioni marittime e missilistiche che abbiamo citato sopra che portarono allo scoppio della terza crisi dello Stretto e ad una nuova interruzione dei rapporti nel 1998. Successivamente grazie alle elezioni nel 2000 ed alla riconferma nel 2004 di Chen Shui-bian in Taiwan ed alla contemporanea presidenza del segretario del PCC Hu Jintao in Cina, dal 2003 i rapporti tornarono ad essere amichevoli pur senza un contatto e nonostante le continue provocazioni da entrambe le parti.

Dal 2008 i successi nel dialogo con Taipei hanno portato Pechino a credere sempre di più nella possibilità di una riunificazione nazionale tra i due territori facendo leva sull’economia forte della RPC ma a causa delle ritrovate relazioni USA-Taiwan concretizzate nelle periodiche forniture di armamenti soprattutto missilistici ciò è ben lungi dal diventare realtà.

Il PCC da sempre si è presentato come garante dell’unità nazionale e come forza patriottica contro gli stranieri per garantire piena indipendenza alla Cina traendo da ciò legittimazione. La contraddizione di avere delle spinte secessioniste in Taiwan che non riconoscono la Repubblica Popolare è quindi inaccettabile per Pechino in quanto delegittimante sia a livello locale che a livello globale.

Per questo per la Cina la questione Taiwan e di importanza massima. La strategia adottata a partire dagli anni ‘90 per affrontare la questione è quella della deterrenza per mantenere uno status quo nello stretto arginando le spinte indipendentiste portate in Taiwan dal DPP. Perché la strategia di deterrenza funzioni è necessario che la minaccia sia credibile, ed è qui che la MEPL acquista importanza: è infatti in mare che l’ELP deve dimostrare le proprie capacità per dar corso alla minaccia di invasione dell’isola. E le capacità marittime devono essere molto sviluppate vista la presenza in campo nemico della potenza marittima attualmente egemone degli USA.

Interessi regionali: gli interessi marittimi[2]

Gli interessi cinesi in mare sono molteplici ed ovviamente ognuno di essi richiede una capacità di intervento notevole da parte della Repubblica Popolare. Molti di questi interessi comprendono rivendicazioni territoriali da parte dei cinesi nei mari circostanti e sono quindi definiti regionali. La Cina si trova nella delicata situazione diplomatica di dover giustificare la crescente attività militare in mare a paesi che la vedono come una minaccia a livello regionale. Da un lato questo le fa comodo e per questo ha bisogno di ricorrere alla velata minaccia dell’utilizzo della forza militare per esercitare un controllo effettivo sui territori rivendicati.

Quando questi territori sono arcipelaghi o isolotti la forza da esercitare è quella della Marina. Così l’aumentare delle controversie marittime dagli anni settanta in poi spiega l’aumento dell’importanza della Marina militare nei piani cinesi e viceversa il riequilibrio marittimo suggerisce i grandi, molteplici e crescenti interessi della Cina in mare.

Famose sono le dispute intorno alle isole Senkaku, alle Paracelso e alle Spratly.[3]

Le isole Senkaku

Le isole Senkaku sono un arcipelago di otto isole e scogli disabitati nel Mar Cinese Meridionale situate a circa 200 miglia nautiche dalle coste cinesi, 120 miglia a nord est di Taiwan ed altre 200 dal territorio giapponese di Okinawa.

Proprio tra questi tre paesi si sviluppa la controversia: da quando nel 1972 gli americani che avevano occupato le isole sottraendole al Giappone durante la Seconda guerra mondiale le abbandonano la Cina avanza rivendicazioni storiche sul possesso delle isole che sarebbero state scoperte nel 1403 proprio dai cinesi e che sono considerate da allora vista la loro vicinanza parte di Taiwan su cui la Cina come abbiamo visto pure avanza rivendicazioni territoriali.

Le Senkaku sarebbero poi state sottratte illegalmente al controllo cinese dall’Impero giapponese nel 1895. Tokyo per contro afferma di aver preso possesso delle isole a causa della mancanza di gestione da parte della Cina e di esserne proprietario per il trattato di San Francisco stipulato con gli USA nel 1951 (non riconosciuto però dalla Cina a causa della mancata partecipazione alla conferenza) che prevede appunto l’espropriazione dei territori occupati indebitamente dall’Impero Giapponese tra cui non figurano le Senkaku le quali sono state sottoposte al controllo USA per poi essere restituite nel 1971.

La posizione di Taiwan ricalca quella cinese ma ovviamente rivendica l’autonomia territoriale di Taipei e quindi quella delle isole che addirittura sono chiamate con il nome Diaoyu. Taipei però non si è mai dimostrata troppo interessata alla questione a causa della tendenza filogiapponese dettata da ovvi motivi che porta i taiwanesi a parteggiare per Tokyo.

La questione venne a galla con la fine della guerra fredda in contemporanea con i prodromi della crescita della marina cinese che avrebbero permesso alla Repubblica Popolare di minacciare efficacemente l’uso della forza militare per l’occupazione delle isole. La crisi tra Cina e Giappone esplose però solamente nel 2012 quando tre delle isole Senkaku vennero nazionalizzate dal Giappone con la vendita da parte di un privato giapponese che le avrebbe acquistate nel 1932.

La causa di questa disputa è di natura economica, giuridica e strategica. In primo luogo, uno studio USA degli anni settanta avrebbe individuato proprio nel sottosuolo delle Senkaku rilevanti riserve petrolifere e di gas sufficienti per soddisfare i bisogni energetici di entrambi i paesi per diversi anni. Dal punto di vista giuridico la disputa è rilevante in quanto per il diritto del mare effettivamente entrambi i contendenti avrebbero diritto di sfruttare i giacimenti petroliferi delle Senkaku anche se il Giappone dal 1996 ha istituito «zona economica esclusiva» in quanto all’interno delle 200 miglia nautiche dalla propria linea di base calcolata dall’isola di Ryukyu.

Strategicamente questa crisi ci permette di capire come la Repubblica Popolare utilizza in diplomazia strategie quali la issue linkage e coercitive diplomacy. La prima strategia consiste nel «connettere» due contenziosi lasciando intendere all’altra parte che la risoluzione dell’uno è impossibile senza la contemporanea risoluzione dell’altro, il che nel nostro caso fa capire l’importanza per la Cina della risoluzione di tutte le dispute in suo favore e la volontà di non cedere su alcun fronte. La seconda invece è proprio la minaccia dell’utilizzo della forza militare per la risoluzione delle controversie in proprio favore.

Anche se l’ipotesi di un intervento militare cinese nelle isole Senkaku è altamente improbabile in quanto farebbe scattare l’articolo 5 del Trattato di reciproca assistenza e cooperazione tra Stati Uniti e Giappone che prevederebbe l’intervento USA in favore di Tokyo, la minaccia è comunque resa credibile dalla forza militare della Marina cinese che acquista come da tesi importanza diplomatica e strategica oltre che militare.

Le isole Paracelso

Le isole Paracelso sono degli scogli nel Mar Cinese Meridionale tra Vietnam e Cina. Proprio tra questi due paesi scoppia nel 1974 il contenzioso quando la Cina ne rivendica la proprietà. Oltre al motivo economico dei soliti giacimenti di risorse energetiche la disputa si sviluppa anche a livello strategico in quanto recenti immagini satellitari statunitensi hanno evidenziato attività cinesi di sbancamento degli atolli e si è ipotizzato l’utilizzo delle isole come base di appoggio e rifornimento per la marina e l’aviazione cinese per eventuali azioni militari nell’area.

Questo porterebbe ad una grossa crescita dell’influenza diplomatica cinese nell’area grazie alla già vista strategia di coercitive diplomacy e ciò è considerato una minaccia sia da parte degli stati della regione come in questo caso il Vietnam che da parte dello stato egemone, gli USA.

Le isole Spratly

Anche le isole Spratly erano solamente scogli ed atolli ricchi di giacimenti di petrolio e gas al largo delle Filippine prima che la Cina iniziasse nel 1995 a trasformarli in isole artificiali da adibire a basi militari. Queste isole contese appunto tra la Repubblica Popolare e le Filippine permetterebbero ai cinesi di avanzare pretese su circa il 90% del Mar Cinese Meridionale che diventerebbe praticamente nella sua totalità di proprietà cinese estendendo enormemente la loro ZEE e la loro capacità di intervento o di minaccia militare.

L’importanza strategica di questi scogli e delle isole artificiali cinesi è confermata dalla preoccupazione lasciata trapelare dalle mosse degli USA nei confronti delle Spratly e del diretto avversario della Cina in questa disputa: infatti nel 2014 viene ampliata la famosa base americana di Oyster Bay nelle Filippine a soli 160km dalle Spratly mentre nel 2018 vengono intercettati prima due B-52 USA in volo nella zona aerea sopra le isole e poi un cacciatorpediniere statunitense viene respinto da delle fregate cinesi nel tentativo di navigare a meno di 12 miglia da una delle isole artificiali attirando le ire cinesi che definiscono l’episodio come

«una provocazione che ha seriamente danneggiato la sovranità e la sicurezza cinesi, violato le norme basilari del diritto internazionale e nuociuto alla pace e alla stabilità regionali».

L’interesse e la preoccupazione degli USA appaiono dunque evidenti così come la determinazione cinese nel mantenimento del controllo strategico su tutti i territori contesi.

Le pretese avanzate sulle Senkaku, sulle Paracelso e sulle Spratly ricadono nel più ampio piano cinese di espansione territoriale entro la linea di demarcazione chiamata Nine Dash Line che comprende appunto la quasi totalità del Mar Cinese Meridionale ed Orientale. Mentre la Repubblica Popolare si sente legittimata storicamente a porre sotto la propria legislazione gli arcipelaghi e le acque comprese all’interno di questo confine, la comunità internazionale e gli stati della regione non ne riconoscono la legittimità creando un conflitto con la Cina.

Interessi regionali: la «Difesa dei mari vicini»

Dagli anni ’90 nei vari documenti cinesi come il Libro Bianco della Difesa o la Rivista ufficiale dell’Accademia delle Scienze Militari della Marina Militare Cinese viene posta particolare enfasi sul concetto di protezione dei «diritti e interessi marittimi della Cina». Con il crescere dell’importanza data a questo concetto è cresciuta anche la sfera di influenza della Marina cinese. Infatti, la dottrina della difesa lungo la linea di costa adottata dal 1949 e dettata come abbiamo visto dalla più ampia dottrina militare maoista che dava al settore continentale molta più importanza rispetto a quello marittimo, venne sottoposta a revisione già negli anni sessanta quando a partire dal 1956 il maresciallo Peng Dehuai, l’allora ministro della Difesa, propose un più ampio ripensamento della «linea strategica per la difesa della patria».

A questo primo sottilissimo allargamento della difesa della linea di costa alla difesa costiera (lessicalmente in cinese la differenza sta tra i termini «yan», lungo e «jin», vicini) successe poi all’inizio degli anni ottanta un’ulteriore revisione della dottrina navale che fu portata alla ancora più ampia «difesa dei mari vicini».

Già dal 1978 Deng Xiaoping articola questa formula durante gli incontri con i membri del comitato di partito all’interno della Marina. Chiaramente le intenzioni erano quelle di espandere la propria zona di influenza in mare senza però allarmare i paesi vicini mostrandosi eccessivamente aggressivi. Secondo Dossi[4] stando a fonti cinesi formalmente il passaggio di dottrina dalla «difesa costiera» alla «difesa dei mari vicini» avvenne dopo la sessione allargata della Commissione Militare Centrale del 1985.

Secondo l’allora comandante della Marina Liu Huaqing, per mari vicini si intendevano il Mar Cinese Orientale e Meridionale e la totalità del Mar Giallo entro la cosiddetta «Prima catena di isole»: Giappone, Taiwan ed arcipelago delle Filippine. In estrema sintesi, nelle parole dello stesso Huaqing si denota come la nuova dottrina navale era insistentemente regionale e non globale. Questa precisazione era per la Cina necessarie per fuggire ogni dubbio degli USA che la Repubblica Popolare potesse attuare una strategia offensiva oceanica come quella della ex Unione Sovietica.

Cercare di trovare gli esatti confini dei mari vicini è quindi inutile proprio perché i cinesi stessi lo considerano un concetto senza precise basi geografiche. Gao Xinsheng nella sua storia del pensiero navale del PCC del 2010 scrive:

«I mari vicini […] includono tutte le aree sottoposte all’autorità della Cina […] Tali aree si dividono in acque territoriali cinesi vere e proprie e aree che sono strettamente connesse agli interessi della Cina alla sicurezza e allo sviluppo».

Gao Xinsheng, 2010

In questo testo pare ancora più ovvio come la dottrina della «difesa dei mari vicini» sia di natura regionale proprio perché gli stessi «interessi della Cina» sono regionali.

Se ciò fosse completamente vero e cioè se gli interessi della Cina in mare fossero solo ed esclusivamente regionali non si spiegherebbero le operazioni della Marina in mari lontani come quelle nel Golfo di Aden contro la pirateria somala e le esercitazioni congiunte con l’esercito iraniano nello stretto di Hormutz e nel Golfo di Oman.[5] Alcuni interessi cinesi devono avere natura non regionale ma globale e forse possono spiegare meglio il riequilibrio marittimo della Cina.

Interessi globali: la dipendenza economica dalle vie di comunicazione marittime

Come vedremo meglio nel capitolo II dedicato a questo argomento, la Cina è ormai completamente integrata nella rete di commerci globali e l’aumento degli scambi con l’estero a partire dall’apertura degli anni ottanta è stato uno dei tasselli principali della rapida crescita economica cinese diventando quindi uno dei maggiori fattori di legittimazione del regime politico. Questi nuovi commerci e la loro importanza hanno generato nuove dipendenze, una su tutte quella dalle rotte commerciali per le quali passano gran parte delle merci da e per la Cina. La loro sicurezza e la loro rapidità è divenuto uno dei principali interessi nazionali che spinge la Repubblica Popolari a guardare al mare.

Sulle rotte commerciali cinesi passano soprattutto merci per sfamare la fame energetica della Cina sempre più in crescita e cruciale per poter mantenere il modello economico di crescita che i cinesi si sono prefissati. Infatti, secondo un recente studio di Erickson e Collins[6] circa metà del petrolio consumato dalla Cina viene importato e circa l’80% di esso transita sulla rotta marittima che la collega all’Africa ed al Medio Oriente e che passa per l’Oceano Indiano. Ciò detto è però giusto osservare, come fa opportunamente Robert Ross[7] che la dipendenza cinese dal petrolio è secondaria rispetto alla produzione interna di carbone.

La reale dipendenza dalle rotte che portano petrolio sarebbe quindi molto minore rispetto a quanto ipotizzato da Erickson e Collins. Analizzando le poche fonti circa le importazioni di petrolio tra il 1990 ed il 2010 possiamo arrivare alla conclusione di Dossi[8] che la verità sta nel mezzo: mentre infatti la dipendenza energetica dalle importazioni non è così rilevante come sostengono Erickson e Collins non è nemmeno così trascurabile come sostiene Ross.

Le importazioni di greggio infatti sono in costante crescita passando dall’1% di copertura dei consumi totali di energia nel 1993 al picco del 13,65% del 2005 con una lieve discesa all’11% negli anni successivi. Negli stessi anni è cresciuta però anche l’importanza del commercio estero che valeva circa il 39% del PIL cinese nel 1992 ed è passato al 65% nel 2006 prima della discesa dovuta alla crisi del 2008.

Come rileva ancora una volta Dossi però è importante riportare come la quota del commercio estero che transita in mare è sì aumentata ma in modo molto minore passando dal 55% del 1992 al 66% del 2010. Questi dati ci permettono di sostenere che la crescente dipendenza dalle vie marittime di comunicazione della Cina stia aumentando perché cresce il valore complessivo degli scambi con l’estero e non solamente quello via mare.

Inoltre la dipendenza dalle rotte commerciali ha raggiunto livelli alti solamente in tempi più recenti dell’inizio del riequilibrio marittimo degli anni ottanta. Possiamo quindi concludere che gli interessi globali e la crescente dipendenza economica dalle vie di comunicazione non siano la causa del cambiamento dottrinale della Marina Militare ma non possiamo negare che sia divenuta oggi il motore trainante della crescita marittima cinese.


Indice di dipendenza economica dal commercio estero (1992-2010)

Indice di dipendenza economica dalle vie di comunicazione marittima (1992-2010)

Indice di dipendenza del commercio estero dalle vie di comunicazione marittima (1992-2010)

Indice di dipendenza energetica dalle importazioni di petrolio (1990-2010)

Grafici tratti direttamente da S. Dossi, Rotte cinesi, Milano 2014, pp. 71-74


[1] S. Dossi, Rotte cinesi, Milano 2014, pp. 81-85

[2] Ibidem pp. 75-80

[3] M. Dian, Mari disputati: un test di Potenza per la Cina, «Limes» 6 (2012).[

[4] S. Dossi, Rotte cinesi, Milano 2014, pp. 23-34

[5] F. Esposito, Nello stretto di Hormuz si decide la partita fra Stati Uniti e Iran, «Limes» 4 (2006).

[6] A. S. Erickson e G. B. Collins, China’s oil security pipe dream. The reality, and strategic consequences, of seaborne imports, in «Naval War College Review» 63 (2010), pp. 89-112.

[7] R. S. Ross, China’s Naval Nationalism. Sources, Prospects and the U.S. Response, in «International Security» 34 (2009), pp 46-81.

[8] S. Dossi, Rotte cinesi, Milano 2014.




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