martedì 26 ottobre 2021 - UAAR - A ragion veduta

L’insostenibile pesantezza della modestia

Le religioni monoteiste pretendono un abbigliamento adeguato alla loro dottrina. E ad andarci di mezzo sono quasi sempre state soltanto le donne. Ancora oggi. Ne parla Adele Orioli sul n. 6/2020 della rivista Nessun Dogma.
 

Pochi aspetti dell’utilizzo della religione come forma di controllo politico e sociale sono evidenti quanto l’obbligo di un determinato abbigliamento. Se da un lato particolari vestiti possono venire utilizzati come immediata presentazione della casta sacerdotale, dall’altro, nella tipica ottica patriarcal-maschilista dei grandi monoteismi, impongono standard anche al fedele comune e, molto più spesso, coprono (quando non direttamente mortificano) il corpo delle sole donne. Il prêt-à-porter dell’oppressione, parafrasando la Shevchenko delle non poco contestate Femen.

Principio sovrano dell’abbigliamento femminile religiosamente orientato, pur se diversamente interpretato secondo latitudini mentali prima ancora che geografiche, è quello della modestia. Modestina non a caso si chiamava il colletto di pizzo che copriva le già poco audaci scollature delle nostre bisnonne.

Modestia e pudicizia, cioè la modestia sessualmente intesa, è il criterio guida di ciò che la donna può permettersi di indossare. Modestia che, a guardare il dizionario, nel duplice senso di umile coscienza dei propri limiti ma anche di mediocrità, di non particolare importanza, schiaccia in partenza la volontà, prima ancora del corpo, cancella l’autonoma determinazione e la libera valorizzazione dell’essere donna. Meriterebbe insomma in ogni caso, un po’ come dovrebbe avvenire per la tolleranza, di essere riconsiderata proprio nel suo essere un valore. Per citare Sherlock Holmes: «non sono fra coloro che considerano la modestia una virtù». Per un uomo dotato di logica, tutte le cose andrebbero viste esattamente come sono, e sottovalutare sé stessi significa allontanarsi dalla verità almeno quanto sopravvalutare le proprie doti.

Anche perché dove c’è scritto «modestia» bisognerebbe leggere «mortificazione e sottomissione». E inversione della colpa: non è mai l’uomo a doversi assumere la responsabilità del proprio comportamento, è sempre la donna a doversi paludare, a dover abbassare occhi e pensiero, a non dover provocare persino con la sua sola e semplice esistenza.

Certo, subito il pensiero va al velo islamico, nelle sue varie declinazioni più o meno radicali. In ogni caso segno obbligatorio di obbedienza, ubudiyah, e di iffah (modestia). Rivendicato da alcuni e da alcune come simbolo di libertà, viene talmente lasciato alla spensierata autodeterminazione delle donne che per il fatto di non indossarlo si rischiano e si subiscono linciaggi, si mette a repentaglio la stessa vita. E non solo in quei paesi che ci sembrano così esotici e lontani (molto vicini al contrario per i nostri import-export), ma anche nelle nostre culle di democrazia occidentale.

Forti dei microcosmi monadici religiosamente condizionati che il multiculturalismo è venuto via via creando, dove il riconoscimento e il diritto a far parte della propria comunità è guarda caso sempre gestito da uomini, nella vecchia Europa aumenta il controllo e l’obbligo di osservanza di precetti magari abbandonati mezzo secolo fa. E con l’irrigidirsi delle regole religiose in segno di appartenenza, enclave resistente in tradizioni e costumi, aumentano le persecuzioni, spesso tanto silenziose quanto cruente e raramente portate allo scoperto. A meno che non succeda l’irreparabile, come nel caso di Hina, ragazza pachistana uccisa vicino a Brescia dai familiari nel 2006 proprio per il rifiuto di portare il velo.

Velo che, pur nelle sue declinazioni peggiori (il niqab che lascia scoperti solo gli occhi, o il tristemente famoso burka, che nasconde sotto uno scafandro persino quelli), è ammesso e concesso anche dalla nostra legislazione, risalente al periodo del brigatismo e particolarmente severa nei confronti dei volti coperti. Ma, si sa, ubi religio minor cessat: la tutela del sacro e l’eccezione religiosa vanno alla grande anche da noi, con buona pace dei miopi islamofobi.

E dove non basta coprire, si elimina. Chiunque abbia visto la serie Netflix Unorthodox non ha potuto fare a meno di piangere insieme alla protagonista quando, per festeggiare le appena celebrate nozze, le vengono rasati a zero i lunghi capelli. È l’usanza ebraica, soprattutto chassidica, dello sheitel, parrucca, che va indossata dalle donne sposate «nel rispetto del codice della modestia noto come tzniut». A dir la verità, alcuni rabbinati considerano troppo simili al vero e quindi impudiche anche le parrucche, obbligando al più remissivo foulard. Forse un qualche peso l’ha avuto lo scandalo dei capelli utilizzati per confezionarle, di prevalenza indiani, provenienti da offerte votive per riti non ben precisati ma di sicuro non kosher.

Non è peraltro una modestia esclusivamente tricologica: tutto il corpo femminile è bene che sia occultato agli sguardi. Nel cattolicesimo l’insegnamento paolino, complici tradizioni ebraiche e romane, identifica il velo segno di come doverosa sottomissione femminile a Dio prima, al maschio dopo: «L’uomo invece non deve coprirsi il capo, perché è l’immagine e la gloria di Dio; ma la donna è la gloria dell’uomo; perché l’uomo non è dalla donna, ma la donna dall’uomo; anche perché l’uomo non fu creato per la donna, ma la donna per l’uomo» (1Corinzi 11,7-10).

Giusto per usare sottili metafore. Obbligo che si è però andato via via attenuando e dal punto di vista teologico, complice qui il Concilio Vaticano II, viene interpretato come riferito ai soli usi locali dell’epoca. Il velo delle spose o per la prima comunione ne sono un ricordo ormai più di costume che di reale sentimento. Purtuttavia rimane obbligatorio per suore e monache in molteplici fogge, alcune molto anacronistiche. Come spiega la benedettina Anna Maria Canopi, nota teologa di recente scomparsa, le religiose «consacrate nella verginità per essere esclusivamente spose di Cristo, devono sottrarsi allo sguardo di altri possibili pretendenti. [… Il velo], distogliendola dal divagare con gli occhi, la aiuta a tenere lo sguardo del cuore più direttamente rivolto a Dio. […] Il velo è inoltre anche il segno del pudore che la nasconde, in un certo senso, al suo stesso sposo».

Monoteismo che vai, sempre le stesse donne ritrovi. Tentatrici maliarde da sottomettere e paludare, e se devote talmente distratte da dover indossare i paraocchi. In ogni caso modeste, sempre e soprattutto modeste, come si premura di scrivere un monsignore sedevacantista. Ove il vestire modesto è ovviamente quello che prevede più centimetri possibili del corpo femminile coperti in modo volutamente informe. Il prelato ritiene «tragico vedere ragazze e donne cattoliche cadere vittime delle seduzioni di stili e mode immodeste, e così facendo, divenire causa ed occasione di peccato per tanti altri».

In due righe l’adoratore di Fatima centra il punto. In un contesto come quello della religione-strumento di controllo il peccato assume ovviamente una rilevanza fondamentale, equiparabile a quella del reato secolare ma con persino maggior pregnanza: se si può sfuggire alla giustizia terrena, a crederci quella divina ti becca sempre. Ma quando il peccato riguarda il rapporto uomo-donna e in special modo quello di sopraffazione, non solo e non necessariamente a matrice sessuale, in confessioni create e gestite da uomini è sistematico il rovesciamento delle responsabilità. Causa e occasione (e facile scusante) del peccato è l’oggetto del desiderio, non l’autore dell’abuso, psichico o fisico, reale o eventuale che sia.

Se possono sembrare echi lontani di mondi dimenticati o comunque distanti, diversi e sgraditi, quando viene evocato lo scontro di civiltà e religioni con l’occidente cattolico sempre dalla parte dei buoni bisognerebbe prima pensare a quanto e a quante volte sembra essere importante il vestito di una vittima di stupro o molestie. E non solo nei mass media beceri, ma persino nelle aule di giustizia. Quando non è la donna e i suoi diritti fondamentali a fare la differenza, ma sono solo i centimetri di stoffa che ammantano soprusi e oppressioni a sesso unico.

Adele Orioli

Per leggere tutti i numeri della rivista associati all’Uaarabbonati oppure acquistala in formato digitale.

 



1 réactions


  • Truman Burbank Truman Burbank (---.---.---.91) 27 ottobre 2021 18:46

    Si, mi torna, nella religione Covid è previsto che tutti debbano coprire il volto, in particolare se sono vicini tra di loro, ma in parecchi casi vengono coperte anche le mani, gli occhi, la testa.

    Effettivamente la sensazione è che siano proprio le donne a coprirsi quanto più possibile in tutte le situazioni.


Lasciare un commento