giovedì 14 maggio 2015 - Ermete Ferraro

L’insostenibile leggerezza della sostenibilità

Una delle parole più inflazionate ed ormai svuotate del loro significato originario è "sostenibilità". In nome di questo ambiguo principio si pretenderebbe di 'correggere' piaghe come la fame nel mondo, le profonde diseguaglianze socio-economiche, il controllo sulle coltivazioni e sulla stessa terra, gli assurdi sprechi del consumismo, come se si trattasse di semplici 'errori' rispetto all'unico modello di sviluppo possibile.

Confrontanto la "Carta di Milano" con il meno noto "Manifesto di Brescia", si cerca di dare una lettura corretta dell'evento EXPO e della visione che ne sta alla base, demistificando il luogo comune che, escludendo ogni concezione realmente alternativa, vede nella scienza, nella tecnologia ed in una generica consapevolezza ambientale la soluzione ai mali che affliggono il nostro Pianeta.

SOSTIENE BRUNTLAND…..

Un tormentone letterario-filosofico della prima metà degli anni ’80 fu il romanzo del praghese Milan Kundera “L’insostenibile leggerezza dell’essere”. Questo titolo mi è tornato in mente leggendo un commento di Alberto Mingardi su La Stampa, nel quale così si esordisce:

“C’è chi dice no: anche se non sa tanto bene a che cosa. Il caso dell’Expo è interessante. Appena incominciato, ha già trovato i suoi contestatori. I quali, se li si prende sul serio, pare abbiano in mente un altro modello di sviluppo: che finisce per essere proprio lo stesso che hanno in mente i sostenitori dell’Expo. Questi ultimi hanno tarato la loro «Carta di Milano» su un concetto studiatamente opaco: quello di «sostenibilità». [1]

Se è evidentemente falsa l’affermazione che gran parte dei contestatori dell’EXPO non sappiano neanche a cosa si oppongono e perché, su un’altra sono invece d’accordo: quello di sostenibilità è un concetto“studiatamente opaco”. E sulla opacità di certe idee – o meglio, sulla loro voluta ambiguità – si possono costruire illusori castelli in aria, ma anche erigere i padiglioni della esposizione universale di Milano.
Sviluppo_sostenibile.svgIl termine in sé, entrato in circolazione dopo la pubblicazione del Rapporto Bruntland nel 1987, ha avuto una vita abbastanza breve ma travagliata. La sua definizione più nota e condivisa, contenuta in quel documento, era la seguente:

“equilibrio fra il soddisfacimento delle esigenze presenti senza compromettere la possibilità delle future generazioni di sopperire alle proprie” [2].

Tutto, allora, sembrava chiaro ed evidente. Fatto sta, però, che su questa base si sono sviluppate correnti di pensiero e proposte assai diverse, per cui il pur accattivante concetto di ‘sviluppo sostenibile’ purtroppo resta vago, come si sottolinea anche in un documento elaborato in occasione d’un incontro sulla ‘Sostenibilità globale’ , promosso dall’O.N.U. nel 2012.

“Lo sviluppo sostenibile è un concetto fluido e nei due passati decenni sono emerse varie definizioni. Nonostante un dibattito in corso sul suo significato attuale, si tende ad enfatizzare pochi concetti comuni. […] Sebbene ci sia un generale consenso sul fatto che lo sviluppo sostenibile richieda una convergenza fra i tre pilastri dello sviluppo economico, della giustizia sociale e della protezione ambientale, il concetto resta elusivo…” [3]

Fluido, elusivo, opaco: tre aggettivi che sottolineano come l’idea stessa di sostenibilità sia stata viziata da una scarsa chiarezza sulla sua effettiva applicabilità ad una visione economica che, viceversa, diverge sempre più da una concezione ecologica. Ne consegue quella che nel titolo ho chiamato “l’insostenibile leggerezza della sostenibilità”, per indicare l’insopportabile ambiguità ed irrilevanza d’un principio forte degradato a pensiero debole, a parola-attaccapanni.

Perché il concetto di ‘sviluppo sostenibile’ possa essere preso in considerazione, diventando invece solido, stabile e trasparente, bisogna dunque smetterla con l’ambiguità di chi vuole ad ogni costo salvare capre e cavoli, iniziando a fare scelte sicuramente impegnative ma non rinviabili.

Un’immagine che rende bene il concetto originario e globale di ‘sostenibilità’ – ma che nella sua evidenza mostra subito quanto sia ambiguo e perfino mistificatorio cercare di applicarla all’attuale modello di sviluppo – è sintetizzata dall’intersezione grafica dei tre ‘campi’ d’intervento (sociale, ambientale ed economico):

  • Sostenibilità economica: intesa come capacità di generare reddito e lavoro per il sostentamento della popolazione.

  • Sostenibilità sociale: intesa come capacità di garantire condizioni di benessere umano (sicurezza, salute, istruzione, democrazia, partecipazione, giustizia), equamente distribuite per classi e genere.

  • Sostenibilità ambientale: intesa come capacità di mantenere qualità e riproducibilità delle risorse naturali. [4]

Ebbene, l’area derivante dall’intersezione delle tre componenti dovrebbe rappresentare ciò che comunemente si indica con l’espressione sviluppo sostenibile, che dovrebbe essere caratterizzata da tre concetti-chiave: equità, vivibilità e realizzabilità. Sfido chiunque, però, ad affermare che l’attuale modello di sviluppo – presentato ormai come il solo possibile dai fautori del pensiero unico – risponda davvero a tali requisiti. Non bisogna essere ‘no global’ né ‘antagonisti’, infatti, per accorgersi che le nostre società diventano sempre meno giuste e vivibili e che la conciliazione fra economia ed ecologia è ancora molto lontana.

Eppure c’è qualcuno che, come Mingardi nel citato articolo su ‘La Stampa’, insiste proprio sul paradosso per cui l’EXPO di Milano sarebbe contestato proprio da chi propugna un modello di sviluppo che è quello che i suoi organizzatori avrebbero in mente. Ma è davvero così?

ESPOSIZIONE... ALLA CARTA

carta di milanoAlla base di questa edizione dell’Esposizione Universale – che ha come tema centrale “Nutrire il Pianeta – Energia per la vita” – è stata posta la Carta di Milano[5] un solenne documento presentato come la base teorica per “affermare il diritto al cibo come diritto umano fondamentale”. Si tratta di una dichiarazione d’intenti che dovrebbe conferire autorevolezza etica ad un evento miliardario, che invece appare sostanzialmente in linea con l’attuale visione produttivista e consumistica.

In essa, ovviamente, ritroviamo affermazioni assolutamente condivisibili ed appelli sottoscrivibili, ma quel documento mi sembra un’ulteriore dimostrazione di quanto possa essere ambiguo il concetto di sostenibilità se diventa uno strumento multiuso come un coltellino svizzero.

La Carta di Milano, ad esempio, racchiude una serie di dichiarazioni che, da un lato, non mancano di fotografare l’evidente in-sostenibilità del nostro modello di produzione e di consumo. Dall’altro, però, focalizzano l’attenzione sulle criticità derivanti dalla cattiva gestione di questo modello (sprechi, disuguaglianze, scarsa consapevolezza, carente partecipazione, mancanza di adeguata innovazione), come se si trattasse solo di difetti, errori, effetti collaterali.

Basta sfogliarne il testo per trovare affermazioni sottoscrivibili da un punto di vista ecologico e sociale, come quelle raggruppate sotto il titolo “siamo consapevoli che…”. Penso che nessuno, infatti, potrebbe dichiararsi in disaccordo col fatto che il problema sia quello di “nutrire una popolazione in costante crescita senza danneggiare l’ambiente”, oppure che il cibo sia un elemento identitario d’un popolo e delle singole persone, o sul fatto che “è possibile favorire migliori condizioni di accesso a cibo sano e sufficiente nei contesti a forte urbanizzazione, anche attraverso processi inclusivi e partecipativi che si avvalgano delle nuove tecnologie”.

Direi quasi che si tratta di ovvietà, a meno che non ci sia qualcuno che dichiari apertamente la volontà di danneggiare l’ambiente e di negare il diritto al cibo ad intere popolazioni. Anche sul fatto che “una corretta educazione alimentare, a partire dall’infanzia, è fondamentale per uno stile di vita sano e una migliore qualità della vita” suppongo che non ci siano discussioni. Altrettanto scontata e generica, poi, appare l’esigenza di “adottare un approccio sistemico, attento ai problemi sociali, culturali, economici e ambientali e che coinvolga tutti gli attori sociali e istituzionali”.

Anche nelle altre sezioni della Carta di Milano, del resto, c’imbattiamo in affermazioni sacrosante, come ad esempio la convinzione che “il cibo abbia un forte valore sociale e culturale, e non debba mai essere usato come strumento di pressione politica ed economica”  o anche quella che ribadisce quanto sia importante tutelare la diversità biologica: “l’attività agricola [è] fondamentale non solo per la produzione di beni alimentari ma anche per il suo contributo a disegnare il paesaggio, proteggere l’ambiente e il territorio e conservare la biodiversità.”

Tutto vero e giusto. Il problema è che queste considerazioni – pur parlando di “ingiustificabili disuguaglianze”, d’insopportabili sprechi alimentari e di sfruttamento eccessivo delle risorse naturali – non vanno oltre il livello della diagnosi, guardandosi bene dall’individuare le cause dei mali che denunciano.

Ma è proprio vero che si tratta solo di disfunzioni, diseconomie e criticità  di un sistema di per sé valido ed accettabile, o piuttosto siamo di fronte alle ovvie conseguenze di un modello economico-sociale di per sé iniquo, antiecologico e predatore di risorse? La Carta di Milano non dà una risposta, mantenendo l’ambiguità del concetto di sviluppo sostenibile inteso come obiettivo da perseguire mediante una semplice correzione di rotta, non certo come cambiamento profondo e radicale di un modello di per sé ecologicamente e socialmente insostenibile.

Se andiamo a leggere le proposte operative, il documento ci offre indicazioni e strumenti che hanno a che fare solo con il miglioramento della situazione attuale, in una visione riformista del problema. A noi cittadini, alla società civile ed alle imprese, infatti, si richiedono: maggiore consapevolezza e senso di responsabilità; pratiche virtuose per la riduzione dell’impatto ambientale (come il riuso ed il riciclo): creatività ed impegno civile; recupero e redistribuzione delle eccedenze alimentari; diversificazione delle produzioni agricole e maggiore attenzione al benessere degli animali. Come a dire: se il sistema funziona male, tocca a voi darvi una regolata ed essere più responsabili.

Ai governi e alle istituzioni internazionali, inoltre, si richiede:

  • di adottare misure normative che rendano “effettivo il diritto al cibo e la sovranità alimentare”, rafforzando la legislazione in materia agro-alimentare e coordinandosi con le organizzazioni;
  • di tutelare giuridicamente il cibo da frodi e pratiche scorrette, promovendo la sicurezza alimentare e diffondendo “la cultura della sana alimentazione”;
  • di “declinare buone pratiche in politiche pubbliche e aiuti allo sviluppo che siano coerenti coi fabbisogni locali, non emergenziali e indirizzati allo sviluppo di sistemi alimentari sostenibili”;
  • di promuovere la ricerca e lo sviluppo in materia alimentare, migliorando l’efficacia nella produzioni e riducendo gli sprechi al consumo;
  • di “considerare il rapporto tra energia, acqua, aria e cibo in modo complessivo e dinamico, ponendo l’accento sulla loro fondamentale relazione, in modo da poter gestire queste risorse all’interno di una prospettiva strategica e di lungo periodo in grado di contrastare il cambiamento climatico”.

Mi sembra evidente che, fatta eccezione per quest’ultimo punto, un po’ più esplicito e qualificante, ciò che la Carta di Milano ci propone non ha proprio nulla di alternativo, proponendo di fatto solo la rimodulazione dell’attuale modello agro-alimentare, in chiave di maggiore efficienza (sul piano economico) e di più diffusa e consapevole partecipazione (sul piano civico-sociale).

Ma siamo certi che sia questa la sostenibilità da perseguire?
sustainability

UN MANIFESTO PER L-ALTERNATIVA

Il 22-23 aprile scorso si è tenuto a Brescia, presso la Fondazione Micheletti, un convegno sulle “tre agricolture” (industriale, biologica ed ecologica), in vista del quale è stato predisposto un documento, il Manifesto di Brescia [6], che annovera tra i suoi primi firmatari Giorgio Nebbia, Alberto Berton, Guido Pollice, Pier Paolo Poggio e Giovanna Ricoveri.

Si tratta ovviamente di una disamina molto più critica sull’insostenibilità della nostra agricoltura industrializzata, chimicizzata e standardizzata, causa prima dei guasti ambientali e delle ingiustizie economiche stigmatizzate dalla Carta di Milano, senza però individuarne le responsabilità reali.

Nel suo linguaggio essenziale si afferma infatti che:

“Negli ultimi due secoli si è verificata una rottura dei vincoli naturali con l’avvento di una modernizzazione che ha promesso di soddisfare i bisogni fondamentali di popolazioni in rapida crescita attraverso l’industrializzazione dell’agricoltura, dell’allevamento e pesca, nonché della trasformazione e distribuzione degli alimenti. Tale industrializzazione, facendo perno sulla meccanizzazione, sull’impiego di sostanze chimiche come concimi e pesticidi e su una selezione genetica orientata alle varietà a resa elevata, si è imposta nei paesi di più antico e consolidato sviluppo, come quelli europei e americani, con una forza capace di travolgere tutte le resistenze. L’agricoltura, nella visione corrente, è così diventata un reparto dell’industria, adottandone la logica di standardizzazione, uniformazione, economie di scala, espulsione e precarizzazione della manodopera.”

Il ‘peccato originale’ da cui scaturiscono i mali denunciati, dunque, va individuato nel fatto che – in nome del progresso – l’agricoltura ha visto violato il suo legame con la natura, divenendo sempre più una realtà affidata al sapere scientifico e tecnologico ed a scelte verticistiche che l’hanno sottratta al controllo e alla gestione diretta delle comunità locali.

A quel modello di sviluppo agricolo – dominato sempre più dalle multinazionali e soggetto a manipolazione e brevettazione delle stesse risorse naturali – è ovviamente corrisposto un modello di alimentazione e, più in genere, di consumi e di stili di vita.

“Questa macchina, sostenuta da una formidabile azione pubblicitaria, talvolta mascherata da informazione scientifica, presenta delle crepe e vibrazioni pericolose, sembra procedere alla cieca orientata solo dalla logica del profitto, creando guasti eccessivi sul suolo su cui poggia, nella sua avanzata arreca danni alle forme viventi e alle stesse persone che trascina nella sua marcia apparentemente inarrestabile…”

Ma un modello di economia fondato unicamente sulla ‘logica del profitto’ e del tutto incurante del rispetto degli equilibri biologici e di quelli sociali non potrà mai diventare sostenibile, almeno nel senso originario del termine. Se partiamo dalla definizione sintetica riportata all’inizio, infatti, non si comprende come un sistema fondato sulla massimizzazione del profitto possa conciliarsi con l’esigenza di garantire lavoro e cibo alla popolazione mondiale, benessere e giustizia ai singoli ed alle comunità locali e la qualità e riproducibilità delle risorse naturali.

Come fa, ad esempio, una visione economica che alimenta lo spreco a ridurre gli sprechi? Come può uno sviluppo fondato sull’accentramento delle risorse energetiche promuovere pratiche di controllo decentrato di fonti rinnovabili da parte delle comunità locali?

Come possiamo aspettarci una semplice ‘razionalizzazione’ di un’agricoltura industrializzata “incompatibile con l’ecosfera e la vita degli ecosistemi, come appare dalle crescenti manifestazioni di cambiamenti climatici, di erosione del suolo, di perdita di fertilità e di biodiversità, di inquinamento delle acque ad opera dei residui di concimi e pesticidi e dei residui della zootecnia”?

Ovviamente si tratta di una domanda retorica, poiché – per parafrasare l’evangelista Luca – “Ogni albero infatti si riconosce dal suo frutto: non si raccolgono fichi dalle spine, né si vendemmia uva da un rovo…”[7]E’ inutile aspettarsi che l’albero del profitto dia frutti di giustizia e di rispetto dell’ambiente, che sono invece la logica conseguenza di un modello produttivo profondamente diverso, di un’economia che nasca ecologica e non finga di diventare tale, per riparare i danni già commessi.

“L’agricoltura ecologica, rispondente ai bisogni e alle necessità dell’oggi, può e deve raccogliere e superare l’eredità sia dell’agricoltura contadina sia di quella industriale […]. La sua affermazione, passando da situazioni di nicchia a fenomeno socialmente rilevante, le consentirà di svolgere un ruolo prezioso di rigenerazione sul piano culturale, ecologico ed economico rimettendo al centro dell’operare umano il valore del saper fare e della manualità, il valore del lavoro e del suo senso, il valore delle cose e delle relazioni, il valore del tempo, dei tempi dell’attesa, del silenzio e dell’otium come opportunità di conoscenza, come capacità di godere della vita senza consumarla.” 

Non si tratta di considerazioni puramente filosofiche o del vagheggiamento di utopie georgiche. Sono in realtà prospettive per la cui realizzazione già da tempo operano migliaia di persone, scegliendo stili di vita alternativi, seguendo modelli di alimentazione più sana e naturale, riprendendosi le risorse energetiche che sono di tutti, producendo con ritmi e modalità biologiche, uscendo dalla trappola di un consumismo che produce rifiuti e nevrosi.

Insomma, l’alternativa c’è, un altro mondo è possibile. Non credo proprio, però, che saranno le raccomandazioni della Carta di Milano a promuovere un vero cambiamento, che è invece il frutto di quella che, con Antonio D’Acunto, chiamerei “la Civiltà del Sole”. E concludo proprio con le parole di questo carissimo amico e maestro, citando il suo “decalogo” per conciliare economia ed ecologia:

“ 1 – La sostenibilità energetica e della materia nella produzione dei beni materiali e di consumo, con il crescente, fino al totale, impiego del Sole, del rinnovabile e del riciclo della materia;

2 – La tutela della Biodiversità animale, vegetale e del volto del Pianeta;

3- La tutela e la preservazione integrale da inquinamento dei Beni Comuni, acqua, aria, etere;

4 – La tutela della storia e della cultura umana e dei beni da essa prodotti;

5 – Il diritto di ciascuna persona umana a realizzarsi con il lavoro e perciò la politica per la piena occupazione;

6 – La produzione ed il lavoro quali arricchimento dei valori dell’Uomo e del Pianeta;

7 – L’agricoltura e l’alimentazione nella naturalità e nella rinnovabilità;

8 – La Salute quale diritto inalienabile di tutti i cittadini al livello massimo consentito dalle conoscenze di oggi;

9 – Il diritto alla scuola, alla crescita culturale, all’università ed alla ricerca scientifica, umanistica e tecnologica;

10 – La solidarietà. “ [8]

Si tratta di poche e semplici indicazioni, ma su di esse possiamo costruire un futuro davvero sostenibile, insieme e dal basso.

© 2015 Ermete Ferraro (https://ermeteferraro.wordpress.com )

[1] A. Mingardi, Contro la fame funziona anche il mercato >http://www.lastampa.it/2015/05/01/cultura/opinioni/editoriali/contro-la-fame-funziona-anche-il-mercato-zkaVazNLTuQXEfagFvtkJJ/pagina.html

[2] Bruntland Commission, Our Common Future, World Commission on Environment and Development (WCED), 1987, p.43

[3] Sustainable Development – from Bruntland to Rio 2012, Background Paper for consideration by the High Level Panel on Global Sustainability, 19 September 2010 – Prepared by John Drexhage and Deborah Murphy, International Institute for Sustainable Development (IISD), U.N. (September 2010) , p. 2 >http://www.un.org/wcm/webdav/site/climatechange/shared/gsp/docs/GSP16_Background%20on%20Sustainable%20Devt.pdf

[4] Cfr. articolo: http://it.wikipedia.org/wiki/Sviluppo_sostenibile e relativo grafico

[5] Leggi il testo in: http://carta.milano.it/la-carta-di-milano/ Le citazioni seguenti sono tratte da questo documento.

[6] Leggi il testo in: http://www.bfdr.it/index.php?option=com_docman&view=download&alias=5-manifesto-di-brescia&Itemid=127 Le citazioni seguenti sono tratte da questo documento.

[7]  Vedi: Lc 6,44

[8] Antonio D’Acunto, La necessità di nuovi indicatori di un’economia che nasca dall’ecologia >http://www.terraacquaariafuoco.it/index.php/un-economia-che-nasca-dall-ecologia/43-la-necessita-di-nuovi-indicatori-di-un-economia-che-nasce-dall-ecologia




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