L’idrovora America e l’Europa drenata a morte
Affondando gli accordi fiscali globali, Trump usa il fisco come arma di rinforzo a quella delle tariffe, mirando a proteggere le multinazionali americane e letteralmente risucchiare investimenti globali verso gli Stati Uniti.
Tra le prime misure adottate da Donald Trump nel turbine di memorandum e ordini esecutivi emessi dal momento in cui si è seduto alla scrivania dello Studio Ovale, spicca il ritiro del già problematico e parziale sostegno statunitense agli accordi di tassazione globale delle multinazionali raggiunti negli scorsi anni in sede Ocse, faticosamente assemblati nell’ultimo decennio.
Accordi Ocse verso la sepoltura
Trump ha minacciato ritorsioni nei confronti di qualsiasi paese che imponesse tasse “extraterritoriali” o “discriminatorie” sulle multinazionali statunitensi. Gli accordi in sede Ocse nacquero dall’esigenza di recuperare risorse fiscali per casse nazionali esauste dopo la crisi finanziaria globale, e rimuovere una ragnatela di accordi nazionali bilaterali di tassazione che facevano il gioco delle multinazionali, abili a passare attraverso maglie fiscali globali piuttosto larghe, con lo spostamento dei profitti in giurisdizioni fiscali a bassa o nulla tassazione.
Un problema che colpiva anche e soprattutto gli Stati Uniti, con pesante perdita di gettito e disincentivi al reinvestimento in patria dei profitti. Fu in origine la stessa prima Amministrazione Trump a far progredire la riforma, col Segretario al Tesoro Steven Mnuchin.
L’accordo sulla condivisione dei profitti e su un’aliquota minima per le società (Pilastro 2) è stato raggiunto nel 2021, ma non è mai stato approvato dal Congresso sotto l’amministrazione Biden. Alcune delle riforme sono tuttavia già in fase di attuazione in molti paesi, con un aumento teorico di entrate globali per circa 200 miliardi di dollari. Gli americani erano anche stati spinti ad agire dalla pressione di paesi in cui le loro multinazionali pagavano poco e nulla in tasse. Tali paesi, tra cui Regno Unito, Francia e Italia, hanno così creato delle tasse sui servizi digitali (Digital Services Tax, DST) con un prelievo sui fatturati e non sugli utili, modalità di imposizione di solito non coperta dai trattati fiscali.
Il memorandum col quale Trump chiede al Tesoro statunitense di valutare entro 60 giorni provvedimenti per la protezione delle imprese statunitensi da misure fiscali discriminatorie ed extraterritoriali apre la strada a ritorsioni a mezzo di ordine esecutivo presidenziale, la cui origine si rintraccia nella Sezione 891 del codice fiscale federale del 1986, che arriva a quantificare l’entità della rappresaglia fiscale, in modo pare non modificabile, nel “raddoppio delle aliquote fiscali su cittadini e aziende di Paesi stranieri” coinvolti nella presunta discriminazione.
Gli accordi Ocse si basavano su due pilastri: il primo prevede la tassazione degli utili delle multinazionali nei paesi in cui vengono realizzati, allocati in base al fatturato locale. Il secondo sulla imposizione di una global minimum tax del 15 per cento. Come detto, il primo pilastro di fatto non è mai entrato in vigore, ed il cui principio è tuttora approssimato da preesistenti DST nazionali; mentre riguardo al secondo, oggetto degli strali di Trump, oggi gli Stati Uniti hanno una minimum tax globale di circa il 10 per cento, introdotta come detto dalla prima amministrazione Trump. Quindi la discriminazione ai danni di aziende americane sarebbe nell’aliquota del 15 per cento prevista in sede di accordi Ocse. Ma è evidente che l’azione di Trump arriverà a rimettere in discussione anche le DST nazionali, i precursori del pilastro 1, mai nato.
Che accadrà ora?
Ci sono tuttavia alcune considerazioni per una situazione in divenire. Ad esempio, la legge americana stabilisce che la minimum tax nazionale crescerà al 16 per cento nel 2026, quindi sopra la soglia Ocse, e il problema sarebbe risolto spontaneamente. Inoltre, Trump punta a portare la tassazione d’impresa dal 21 al 15 per cento, e questo sarebbe in linea col secondo pilastro Ocse. Ma è molto probabile che Trump cercherà nel frattempo anche di far cancellare i simulacri del pilastro 1, cioè le tasse digitali nazionali sul fatturato.
Per l’Italia, ad esempio, questo costerebbe intorno ai 3-400 milioni annui, da reperire altrove. E soprattutto metterebbe fine ai ragli della politica nostrana. Che ogni anno, dopo l’estate e prima della scrittura della legge di bilancio, rilancia il sarchiapone della tassazione dei “giganti del uebbe”. Salvo approvare una bozza di legge di bilancio in cui si cerca di assassinare le piccole imprese digitali italiane ed essere costretti a mettere una pezza a colori.
Ma il punto è un altro: con Trump, gli americani puntano dichiaratamente a “drenare” aziende al resto del mondo, per ricostituire la propria manifattura mentre lasciano liberi i propri mastodonti tech di arricchirsi e investire in modo epocale sull’intelligenza artificiale. Funzionale a questo obiettivo è l’eliminazione dei pur blandi guardrail all’AI posti dall’amministrazione Biden. Il tutto mentre l’Europa si ingegna a costruirne sempre di nuovi e in Italia abbiamo docenti di algoretica che spopolano.
Gli esempi si moltiplicano: l’ultimo è la decisione di Stellantis di nuovi investimenti per 5 miliardi di dollari negli Stati Uniti, che potrebbero compensare le uscite da Messico e Canada e magari spingersi sino creare capacità produttiva per esportare in Europa. La Commissione Ue medita di rabbonire Trump, tra le altre cose, con maggiori acquisti di auto americane, forse scordando che quelle auto potrebbero essere le europee migrate oltre oceano, con conseguente perdita di capacità produttiva, fiscale e occupazionale.
Nel frattempo, il ritorno alla dimensione dei trattati fiscali bilaterali permetterà alle multinazionali americane di tornare a creare schemi elusivi miliardari in ritrovati paradisi fiscali, anche se qui Trump userà il bastone, oltre alla carota, dopo aver ridotto l’aliquota di tassazione delle aziende al 15 per cento.
Tiriamo le fila: gli Stati Uniti hanno in corso una gigantesca operazione di attrazione di imprese mondiali sul proprio territorio. Era già in atto con l’Inflation Reduction Act di Biden, si accentuerà con differenti incentivi con Trump. La vittima predestinata, per proprie fragilità anche auto inflitte, è l’Europa. Ma non vorrei diventare ripetitivo.
(Immagine creata con Grok)