venerdì 8 marzo 2013 - ///

L’eredità di Chávez

La morte di Chávez era nell'aria. Lo dimostrava il fatto stesso che il presidente fosse rientrato in Venezuela per passare in patria la fase terminale della sua malattia: la sanità di Caracas non è certo all'altezza di quella di L'Avana, quindi non sembrava sensato proseguire le cure a casa. A meno che non ci fosse più nulla da fare. 

Anche se i dettagli della sua malattia non sono mai stati rivelati, si ritiene che sia morto a causa di un cancro manifestatosi nella zona pelvica. Un male che non gli ha neppure lasciato il tempo di prestare giuramento per il suo quarto mandato. E che anche per questo gli garantirà l'immortalità politica.

In ogni caso, se ne va un grande protagonista della politica internazionale.

E' impossibile raccontare gli ultimi due decenni della storia del Venezuela senza nominare Chávez, tanto è stata importante la sua figura. Tuttavia, la rivoluzione bolivariana resta incompiutae a questo punto c'è da chiedersi se rimarrà tale. Se si procederà a regolari elezioni, probabilmente vincerebbe un rappresentante del fronte chavista (come Nicolas Maduro, indicato come successore dallo stesso Chávez, oppure Diosdado Cabello, o Elías Jaua) e il progetto potrebbe essere portato avanti. Se invece prevalesse un candidato dell'opposizione (Capriles) il Venezuela volterebbe pagina, ad un prezzo - in termini di stabilità politica - al momento impossibile da prevedere. 

Chávez, secondo Linkiesta:

Ha unito il tradizionale caudillismo latinoamericano a una orgogliosa difesa della lotta di classe, che un giorno ha ribattezzato con il nome più moderno di Socialismo del secolo XXI.

(...)

Ma la politica di Chávez in America latina ha avuto anche altre conseguenze: la rivoluzione cubana è riuscita a sopravvivere agli embarghi Usa grazie agli aiuti di Caracas. I governi di Bolivia ed Ecuador sono nati sotto la stella chavista. E il presidente Comandante è stato anche responsabile, con l’appoggio di Néstor Kirchner e di Lula, del fallimento dell’Alca, l’Area di libero commercio delle Americhe, voluto dall’allora capo degli Stati Uniti George Bush. Un episodio che ha segnato la rottura dei rapporti con l’America a stelle e strisce, con tutte le limitazioni imposte dalla globalizzazione economica.
(...)

E oggi, alla sua morte, i dati parlano chiaro: l’inflazione è la più alta al mondo, il tasso di cambio e le riserve internazionali in caduta libera. Alcune importazioni, sebbene aumentate di quasi cinque volte dal 2003, non riescono a bilanciare la carenza cronica di generi alimentari o medicine. La produzione petrolifera è in calo e le raffinerie fuori controllo. L’indebitamento poi è in ascesa: nel 2007 sfiorava i 30 miliardi di dollari, oggi è a quota 200. Mentre i piccoli agricoltori e artigiani sono alle prese con una microeconomia a brandelli e con i salari ridotti a zero. E i ranchos di Caracas crescono. L’ultima ambizione presidenziale era governare fino al 2031, in quello che, secondo Chávez, sarebbe stato il decennio d’oro (2020 /2030). Questa volta però il Comandante ha perso la battaglia.

Sempre Linkiesta spiega la centralità del petrolio nella costruzione dello Stato sociale e, di riflesso, nella propaganda del presidente. La conclusione è che spesso gli “Stati personali”, morto il leader, crollano:

Hugo Chávez è stato un Vladimir Putin sudamericano: il rischio per un paese ricco di petrolio come il Venezuela è che potentati privati emergano e diventino più forti dello stato – e Chávez ha fatto in modo che ciò non avvenisse. Se questo ha richiesto di imprimere una direzione autoritarista al paese, il lidér non si è mai fatto problemi. Il petrolio è diventato cosa di stato.

L’unica forma possibile di opposizione alla regola statale era quella borghese. Per questo sono stati impiegati tutti i mezzi per evitare che la classe alfabetizzata e benestante avesse qualsiasi tipo di espressione politica. Quando una decina di anni fa quasi due milioni e mezzo di venezuelani firmarono una petizione contro di lui, la lista dei nomi fu pubblicata (la famigerata “Lista Tascòn”) e per un periodo è stata attivamente usata per l’esautorazione dei firmatari dalle aziende statali.
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L’idea di comprare consenso con il petrolio è tipica per uno stato petrolifero. E se i soldi del greggio mancavano, Chávez non si è mai fatto problemi a trovarne da altre parti: prima delle ultime elezioni nell’ottobre 2012, il presidentissimo si è fatto prestare soldi dalla Cina – tanto che l’anno scorso il deficit del paese è arrivato al 7,8%, almeno ufficialmente.
Perché alla fine, che lo si voglia o meno, il Venezuela di Chávez non si è mai riuscito a elevarsi rispetto allo status terzomondista di “paese petrolifero”. Il ritmo della vita politica, sociale, economica è dettato dalla velocità alla quale il petrolio esce dal terreno.
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Si sostiene che il “chauvismo” possa rimanere nella storia come il peronismo in Argentina. Il problema, però, è che mentre il peronismo si nutre di povertà – che non manca mai – il chauvismo ha come ingrediente fondamentale il petrolio. È un’ideologia che si mantiene in vita finché ci sono barili da vendere. Sarà condannato alla cantina della storia per i limiti stessi della sua tenuta: Chávez lascia un Venezuela in cui, secondo Moisés Naim, «il deficit fiscale è pari al 20% dell’economia, un mercato nero in cui il dollaro è quotato quattro volte di più rispetto al valore ufficiale, un debito dieci volte più grande rispetto al 2003, un sistema bancario fragile e un’industria petrolifera in caduta libera».

Proprio quest’ultimo punto è stato il tallone d’Achille di Chávez: la produzione petrolifera è scesa da del 13% a 2,7 milioni di barili al giorno nel 2011 (ma c’è chi stima anche 2,3-2,5), rispetto a quando ha preso il potere nel 1999. Non è sostenibile per un paese così che la produzione diminuisca. Questo dato, unito all’effetto dei prezzi del petrolio più bassi rispetto alle previsioni, spiega anche perché il Venezuela si sia indebitato così tanto: i programmi sociali finanziati dal greggio non possono essere interrotti, e tagliare la spesa pubblica significa immediata rivolta sociale.

È così che si squarcia il velo del “neobolivarismo” sulla realtà economica del paese. È un bel brand per chi è costretto a crederci in patria, e per chi si costringe a farlo da fuori. Nonostante accurati sforzi di diversificazione verso la Cina, il maggior mercato per il petrolio venezuelano è sempre stato quello degli Stati Uniti. Chavez aveva nazionalizzato gli asset stranieri, ma stava pagando a caro prezzo la scelta, con la diminuzione della produzione.

Le sovvenzioni populiste hanno ridotto il costo della benzina a un dollaro al pieno, forse il prezzo alla pompa più basso al mondo, ma costano miliardi in termini di entrate statali, a fronte di un considerevole peggioramento della congestione sulle strade e dell'inquinamento atmosferico. E come spesso accade, il populismo ha alimentato anche il mal funzionamento della burocrazia e la corruzione, mentre poco si è fatto sul tema della sicurezza. Nell'ultimo decennio gli omicidi sono triplicati a quasi 20.000 all'anno, mentre le bande criminali rapiscono le loro vittime alle fermate degli autobus e lungo le autostrade. 

Senza contare l'economia. In febbraio il bolívar, la moneta nazionale, ha subito una svalutazione del 30%. Il mondo finanziario giudica tale mossa necessaria, ancorché ritardataria e insufficiente. Caracas ora godrà di un export più competitivo e potrà riassestare le casse dello Stato, anche se c'è il rischio di veder ulteriormente aumentare un'inflazione che a gennaio ha toccato quota 22% su base annua. Per tutte queste ragioni il New York Times afferma che Chávez, "in definitiva, è stato un pessimo manager".

Dello stesso tenore Gianni Riotta su La Stampa:

Indirizzando nei quartieri popolari un po’ dei profitti del petrolio di cui il Paese è ricchissimo, Chavez ottiene il consenso di tantissimi, maturato poi in ammirazione formidabile, alla Peron in Argentina: un leader, spesa pubblica sfrenata, folla adorante. 
...
C’è però «l’altro» Hugo Chavez, censurato dalle cronache commosse. Il Chavez che impone a tutte le tv i propri, infiniti, discorsi. Il Chavez che licenzia 19.000 lavoratori del Petróleos der Venezuela perché hanno osato scioperare senza permesso. Il Chavez che impone un suo «lodo» per togliere autonomia alla Corte Costituzionale e cambia le regole elettorali pur di conservare la maggioranza di deputati all’Assemblea Nazionale. 

L’imponente spesa pubblica, una sorta di Cassa del Mezzogiorno lubrificata dal petrolio, gli fa vincere le elezioni e oggi lo fa rimpiangere a tanti cittadini. Ma spaventa e costringe all’emigrazione i migliori professionisti del ceto medio, dottori, ingegneri, docenti universitari e fa crollare investimenti e fiducia, tra nazionalizzazioni sfrenate e corruzione. Appalti, progetti locali, finanziamenti ad aziende, niente in Venezuela si muove se la macchina politica chavista non riceve le sue mazzette. La corruzione è rampante, e chi non fa parte dei clan deve andarsene. Giornalisti, intellettuali, politici, imprenditori, studenti dissidenti hanno vita dura. 

Malgrado l’immensa ricchezza del petrolio il Venezuela è in panne economica. Moises Naim, ex ministro a Caracas e direttore di Foreign Policy, osserva che il Venezuela ha «uno dei deficit fiscali maggiori al mondo, alto tasso di inflazione, valuta in pessimo stato nei cambi, un debito che cresce come nessun altro, crollo della produttività, inclusa industria petrolifera. Cadono gli investimenti, sale la corruzione. Un leader arrivato al potere con la promessa di eliminare gli oligarchi e scandali, è circondato da quelli che in Venezuela si chiamano boliburgueses, casta di dirigenti chavisti, familiari, clienti che hanno ammassato enormi patrimoni in affari loschi col governo». 

Lasciamo il Venezuela per allargare lo sguardo al resto dell'America Latina.

E' significativa la coincidenza - prima del decesso di Chàvez - tra il rientro in patria del presidente venezuelano e la rielezione in Ecuador di Rafael Correain una sorta di ideale passaggio di consegne tra due leader che hanno molto in comune - attenzione alle classi povere, così come lo scarso rispetto per la libertà di stampa - ma anche molte differenze. Correa, ad esempio, non ha mai elaborato un disegno geopolitico per fare del suo paese una potenza regionale e non può vantare la statura internazionale del suo defunto omologo. E poi non ha i soldi per poter finanziare welfare e geopolitica allo stesso modo, poiché l'economia dell'Ecuador è pari a circa un quarto di quella venezuelana e il petrolio è molto meno.

Negli stessi giorni, la Bolivia di Evo Morales procedeva alla nazionalizzazione di Sabsa, un'impresa spagnola che controlla i principali aeroporti del Paese. Una mossa tipica dei governi di Chàvez e Correa.

Costoro sono stati gli apripista di quel processo di emancipazione che ha affrancato, in varie tappe, l’America Latina dal ruolo di cortiletto di casa degli Stati Uniti in cui era stato relegato fino a non troppi anni fa. Eppure, benché nella memoria collettiva del Sud America Chávez sia destinato a rimanere un simbolo, la sua scomparsa non dovrebbe modificare di molto gli equilibri regionali. 

Il Subcontinente di oggi è ben diverso da quello di vent’anni fa, e alla retorica infiammata dei Chávez e compagnia si è affiancata una corrente di governi di centro-sinistra meno radicali e più attenti alla crescita economica, sul modello di Lula in Brasile.

Ma la notizia della morte del Comandante è ancora troppo calda perché si possa ipotizzare uno scenario a breve termine.



1 réactions


  • Sandro kensan Sandro kensan (---.---.---.99) 8 marzo 2013 17:44

    Quando si parla di propaganda vorrei ricordare che l’Italia è un paese semi libero:

    http://en.rsf.org/press-freedom-ind...

    Posizione ITALIA 57, punteggio 26

    Posizione VENEZUELA 117, punteggio 34

    Da notare che il punteggio assegnato all’Italia da Report senza frontiere differisce di otto punti da quello del Venezuela. Per avere un riferimento, il paese messo peggio come libertà di stampa è l’Eritrea con un 84 come punteggio.

    Quel che voglio dire con questi numeri è che i nostri giornalisti e quelli venezuelani hanno lo stesso modo di intendere la libertà di stampa per cui l’autore dell’articolo non dovrebbe usare la parola "propaganda" se non riferita a se stesso e ai giornali italiani. Anche perché mi pare giusto prima di fare pulizia nel giornalismo italiano e poi parlare male di quello straniero.

    In particolare l’Inkiesta è sicuramente un giornale semilibero con un grado di libertà pari a quello dei giornali venezuelani: perché vedere la pagliuzza negli occhi degli stranieri quando non ci si accorge della trave nei nostri? Perché usare la parola "Propaganda" quando il nostro giornalismo è *propaganda* e quindi non possiamo ergerci a esempio e criticare dall’alto verso il basso quelli che sono messi come noi?

    Può un malato di mente giudicare la sanità mentale di uno messo come lui?


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