mercoledì 30 ottobre 2019 - Osservatorio Globalizzazione

L’equivoco storico del saluto romano

Quando i militanti di estrema destra compiono il celebre “saluto romano”, ritengono di evocare una ritualità che affonda le proprie radici nella grandezza della Roma imperiale di Augusto, Vespasiano, Traiano. Nulla di più errato, come ci ricorda Matteo Luca Andriola sulla vera storia del saluto “romano”. Che di romano, in fin dei conti, ha ben poco.

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A partire dalla proposta in Parlamento nel 2017 della cosiddetta “Legge Fiano”, poi mai entrata in vigore, che prevedeva punisce “chiunque propaganda le immagini o i contenuti propri del partito fascista o del partito nazionalsocialista tedesco”, è tornato in primo piano il dibattito “saluto romano”, che consiste nello stendere il braccio destro teso alzato a circa 135 gradi dal corpo con le dita della mano unite. Saluto usato dai militanti di estrema destra in manifestazioni politiche e private.

Il divieto di apologia di fascismo è un reato previsto dall’art. 4 della legge 20 giugno 1952 n. 645, contenente “Norme di attuazione della XII disposizione transitoria e finale, comma primo, della Costituzione, comunemente nota come Legge Scelba, la cui infrazione comporterebbe da 6 mesi a 2 anni e multa da 206 a 516 euro.

Giovane “balilla” fa il saluto fascista

I neofascisti italiani, ritenendo (come quasi tutti) che tali saluti derivino dall’antica Roma, si sono ingegnati introducendo, specie tra i giovani militanti di formazioni come quelle del vecchio Movimento sociale, il cosiddetto «saluto gladiatorio», che consiste nell’affiancare l’avambraccio destro di chi saluta a quello di chi si vuol salutare e scambiarsi una reciproca stretta al di sopra del polso.

Uno dei presunti saluti romani

Il saluto con il braccio teso è veramente romano? Gli antichi romani si salutavano così?
Partiamo dal presupposto che l’immaginario collettivo del regime fascista, e dei nazisti che si ispireranno alle camicie nere, nasce da una mitizzazione del passato imperiale romano.

L’antica Roma ha fortemente influenzato l’immaginario collettivo, soprattutto durante i venti anni di regime fascista. Inoltre la cinematografia, veicolando durante il ventennio e nel dopoguerra, grazie ai peplum degli anni cinquanta e sessanta (film in costume ambientati in una fantasiosa antichità), ha fatto circolare l’idea che gli antichi romani salutassero stendendo il braccio destro, specie davanti alle autorità.

Ci sono poi alcune varianti di saluto, come il citato saluto gladiatorio e il saluto legionario, che consiste nel battere il pugno o la mano destra tesa sul petto (usato in parte ancora oggi in certe forme di “presentat’arm” militare).

In realtà, come ci ricorda lo storico Raffaele D’Amato, tra le legioni era in vigore la salutatio militaris, un saluto militare codificato nell’antica Roma che sembra analogo al saluto militare moderno, ritenuto in genere un’invenzione medioevale.

Nemmeno un esempio nell’arte romana, dalla scultura alla coniazione di monete e medaglie o alla pittura, mostra il saluto romano così come ci è noto dai film.
Il gesto di alzare il braccio destro nella cultura romana aveva una funzione e un significato diverso. La mano destra alzata nell’antichità era usata simbolicamente per rendere onore o esprimere fedeltà, amicizia e lealtà, afferma lo storico Karl Ernst Georges. Cicerone, per esempio, riporta che Ottaviano, il futuro Augusto primo imperatore, fece un giuramento a Giulio Cesare elevando e tendendo il braccio destro.

Nelle opere d’arte, come statue e fregi degli antichi romani, notiamo che i soldati e gli imperatori, per salutarsi si sbracciano e fanno svariati gesti il cui significato non è del tutto chiaro.
A volte i soldati alzano la mano aperta, come faremmo noi nel salutare un caro amico o un conoscente per strada, ma senza braccio teso. Oppure è l’imperatore ad alzare leggermente il braccio, ma, come notano gli storici Andrea Giardina e André Vauchez nel libro “Il mito di Roma”, edito da Laterza nel 2008, siamo di fronte a un gesto che accompagna un augurio, un buon auspicio o un discorso rivolto ai legionari, con il palmo della mano verticale e le dita aperte.

Colonna traiana: braccia tese o parzialmente tese in diverse modalità

Proviamo a esaminare la Colonna Traiana, innalzata da Traiano fra il 101 e il 106 d.C. dopo la conquista della Dacia (l’odierna Romania), uno dei più famosi esempi di arte celebrativa romana.
Nel fregio 65, l’imperatore Traiano a cavallo è salutato da alcuni barbari con le braccia stese o piegate in segno di sottomissione.

Nel fregio 99 notiamo sei osservatori con la mano alzata in direzione dell’imperatore e il braccio esteso a metà con il gomito leggermente piegato. Delle persone con il braccio teso solo uno ha il palmo aperto, ma tenuto verticalmente. Le dita dei tre che hanno il braccio piegato puntano verso il basso, cosa inusitata per i fautori della storicità del saluto romano, dove le dita sono tese come il braccio e il palmo della mano, aperta.

Colonna traiana: braccia parzialmente tese verso l’imperatore

Nei fregi 122-123 l’imperatore a cavallo è salutato da alcuni soldati, ma nessuno di loro ha il braccio destro teso. Un ufficiale davanti a Traiano ha il braccio aderente al corpo con solo l’avambraccio sollevato e indicando con l’indice della mano. Dietro a lui, due mani sono sollevate con le dita visibilmente aperte come quando si saluta oggigiorno. Quindi, niente “saluto romano”.
Lo stesso Traiano solleva solamente l’avambraccio.

Infine, nel fregio 167, tre daci stendono il braccio verso Traiano, ma le mani aperte sono elevate verticalmente e le dita sono aperte. Siamo davanti a un saluto diverso da quello fatto da fascisti e da nazisti.

Analizzando poi le monete romane notiamo l’esistenza di molte scene di arringa, acclamazione, arrivo e partenza, dove il braccio alzato può esprimere benedizione, saluto o potere, e il più delle volte non è ricambiato.

Pensiamo all’Augusto di Prima Porta, raffigurato come un generale vittorioso che si rivolge alla folla, il braccio leggermente piegato in un movimento nobile e controllato, il corpo per niente sull’attenti ma, al contrario, bilanciato da una torsione contrapposta delle gambe divaricate e flesse, secondo i canoni derivati dalla Grecia classica. Oppure la statua bronzea nota come l’Arringatore, dedicata al notabile etrusco Aulo Metello alla fine del II secolo a.C., oggi situata a Firenze, che presenta il medesimo gesto del braccio appena piegato con la mano alzata, nell’atto di chi chiede solennemente l’attenzione del pubblico prima di cominciare a parlare.

Secondo il citato storico Martin M. Winkler, l’archeologia, come pure tutta la letteratura latina, non ci mostra una sola immagine chiara del gesto specifico adottato dal fascismo. Winkler associa tale saluto ai tempi moderni, ripreso nei dipinti del neoclassicismo.

Forse le braccia tese verso le spade per impugnarle, nel quadro di Jacques-Louis David “Il giuramento degli Orazi” (1784), hanno suggerito il presunto saluto romano noto oggi

Nel famoso dipinto di Jacques-Louis David “Il giuramento degli Orazi” (1784), oggi al Louvre, viene rappresentata la leggenda degli Orazi di Alba Longa e dei Curiazi di Roma ai tempi dei sette re.
Nel dipinto, il padre degli Orazi dà le armi ai tre figli innalzandole in un gesto di buon auspicio. Anche qui non siamo davanti a un saluto romano, ma a un giuramento di fedeltà.

Ai rivoluzionari francesi del 1789 piacque questa immagine, la quale ricorda l’austerità comunitaria della Roma dei patres, che per loro si riflette nel motto “Liberté, Egalité, Fraternité!” in contrapposizione alle molli agiatezze della corte reale di Versailles appena spazzata via.

Altri precedenti di quello che in seguito verrà chiamato “saluto romano” li troviamo nel saluto a braccio alzato alla bandiera, o Pledge of Allegiance, di Francis Bellamy nel 1892, adottato nelle scuole degli Stati Uniti fino agli anni trenta, e poi copiato dal fascismo. L’associazione, come ha messo in luce il ricercatore statunitense Rex Curry, ha poi fatto sì che il gesto venisse sostituito dalla mano sul cuore per evitare confusioni con i partiti fascisti europei.

Il cosiddetto saluto romano viene reso popolare soprattutto dal cinema del primo Novecento, che in pratica reinventa gesti e costumi degli antichi romani, prendendo spunto dal repertorio di convenzioni già fissato dal teatro.

Il film “Cabiria” di Giovanni Pastrone (1914), il più grande kolossal del cinema muto che ebbe successo in tutto il mondo (vanta il poeta Gabriele D’Annunzio come autore delle didascalie), consacra il saluto col braccio teso come simbolo della romanità.

Un simbolo che, dopo la Prima guerra mondiale, viene ripreso proprio da D’Annunzio e dai legionari che lo seguono nella provvisoria conquista della città istriana di Fiume, rivendicata dall’Italia ma ceduta dalla comunità internazionale alla nascente Jugoslavia.

Il saluto romano inventato per fini di spettacolo e passato alla militanza politica con D’Annunzio, verrà poi scippato dalle squadre fasciste di Mussolini. E quindi viene fatto proprio dagli altri partiti di ispirazione fascista, come quello di Hitler.

Il saluto romano-fascista diventa ancora una volta un importante elemento di spettacolo nel film “Scipione l’Africano” di Carmine Gallone, girato nel 1937, per saldare nelle menti degli italiani la Roma dei Cesari con l’Italia di Mussolini.

Nel dopoguerra, Hollywood interiorizza tale simbologie nei kolossal storici di intonazione cristiana, come “Quo Vadis” di Mervyn LeRoy (1951) e “Ben-Hur” di William Wyler (1959). Il saluto romano diventa una metafora del fascismo sconfitto: vedere l’attore Peter Ustinov salutare romanamente la folla nei panni dell’imperatore Nerone non è casuale, serve ad associare l’immagine romanità-fascismo. Stavolta in senso negativo.

Con il cosiddetto “saluto romano” siamo quindi di fronte a una gestualità che, senza vere basi storiche, negli ultimi due secoli si è affermata lentamente nell’arte, nel teatro, nel cinema e infine nella politica dell’estrema destra.




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