lunedì 18 maggio 2020 - UAAR - A ragion veduta

L’apostasia di Silvia Romano

Non c’è arrivo senza partenza. E non c’è conversione senza apostasia. In quasi tutti i viaggi si festeggia l’arrivo, e assai più raramente la partenza. Anche nelle conversioni l’apostasia resta quasi sempre in ombra – ma è continuamente evocata. Il clamore suscitato dalla scelta di Silvia Romano, a ben vedere, non risiede soltanto nella sua conversione esplicita, ma soprattutto nell’apostasia implicita. Passata un poco la burrasca, possiamo rifletterci sopra con maggior calma.

L’apostasia di Silvia

L’antichità classica era talmente fluida che faticava a comprendere il significato di appartenenza religiosa, e quindi non poteva nemmeno concepire i meccanismi di entrata e di uscita da un culto. La conversione, dunque, è soltanto l’ennesima specialità monoteista. Non è un caso se la conversione più famosa di tutti i tempi è quella di san Paolo, folgorato “sulla via di Damasco”: è un inciso che vive ormai di vita propria, anche a spese dei contribuenti. Nella storia, però, le conversioni spontanee sono sempre state rare. Ed è per questo motivo che fanno notizia.

Proprio perché rare, proprio perché richiedono uno sforzo enorme a fronte di un ben misero risultato, le analisi costi-benefici hanno sempre suggerito una strada decisamente drastica e immorale, ma senz’altro più efficace, se il potere è d’accordo: le conversioni forzate su interi popoli. Le prime di cui abbiamo notizia, quelle compiute dai Maccabei, sono ampiamente celebrate nella Bibbia (ebraica prima, cattolica e ortodossa in seguito). Il modello di papa Ratzinger, sant’Agostino, a sua volta le giustificò autorevolmente alla luce del Vangelo. D’altronde, possiamo trovare un miglior esempio di conversione non richiesta al cattolicesimo del battesimo dei neonati, che vengono ancora esorcizzati per scacciare Satana, a cui appartengono fino a quel momento?

Ne consegue che, se bisogna(va?) essere cristiani per forza e se il battesimo rappresenta “un sigillo indelebile”, l’apostata che lo rifiuta sceglie di tornare nelle braccia di Satana. Va quindi considerato un vero e proprio infame: e la chiesa, fin dai primi tempi, lo ha coerentemente scomunicato. L’impero romano, una volta diventato anche cristiano, lo ha invece presto privato dei diritti civili (dal 391) e della vita stessa (dal 534). Vien da pensare che, se non avessimo avuto l’illuminismo, tali provvedimenti sarebbero ancora in vigore. La legge canonica ha infatti preteso la morte dell’apostata fino al 1917, e persino ora lo considera passibile della scomunica latae sententiae, quella che, anche se la chiesa non lo viene a sapere, scatta comunque in automatico. Per capirci: secondo le gerarchie ecclesiastiche, il genocida non merita una pena altrettanto dura.

L’incensamento della conversione va quindi di pari passo con la demonizzazione dell’apostasia. L’apologetica, che arriva a inventarsi la conversione di famosi increduli (Gramsci, Camus, Hitchens), allo stesso modo enfatizza lo straniero che si fa cattolico: già capita col migrante qualunque, figuriamoci con quello vip (Magdi Allam fu battezzato durante una veglia pasquale da Benedetto XVI in persona). Quando però accade il contrario, c’è chi grida immediatamente all’altissimo tradimento: lo psicodramma di questi giorni nasce da questa remota antitesi. Squisitamente teologica, per quanto possa apparirci anche tribale.

È una contrapposizione che la destra ha fatto immediatamente, naturalmente propria. Come in un crescendo wagneriano: dal titolo di Libero (Abbiamo liberato un’islamica) all’epiteto di “neo-terrorista” affibbiato dal leghista (e ultrà cattolico) Alessandro Pagano; dalla richiesta di arresto da parte di Sgarbi all’invito all’impiccagione formulato dal consigliere comunale di Asolo. Una vera battuta di caccia dai connotati sessisti contro “una ingenua che se l’è andata a cercare” – un film peraltro già visto contro altre giovani volontarie (le due Simone, Greta e Vanessa), che traducevano anch’esse in pratica un ritornello caro ai sovranisti, quell’“aiutiamoli a casa loro” sempre sbandierato, ma mai attuato. Nessuno sarà però rimasto sorpreso dall’ancora maggiore acredine manifestata negli ultimi giorni. Agli occhi dei nazional-cattolici, infatti, Silvia l’apostata ha compiuto un duplice tradimento: una milanese, già animatrice in parrocchia, non può abbracciare una religione straniera.

A modo loro, gli identitaristi sono sinceri: non ce la fanno proprio ad accantonare dall’oggi al domani due millenni di radici cristiane.

Cambiare tutto per non cambiare niente

Altrettanto “naturale” è stata però l’accoglienza (talvolta persino festosa) della conversione di Silvia da parte degli esponenti liberal e di sinistra. Le valutazioni delle implicazioni della sua decisione si possono purtroppo contare sulle dita di una mano. E fosse solo questo, il problema. Sui social network sono traboccati gli insulti in risposta alle affermazioni di destra (con toni soltanto leggermente meno accesi) ed è andato in onda un autentico diluvio di perentori “non permettetevi di giudicare la sua scelta” nei confronti dei dubbiosi.

Il mantra del Think Positive in salsa New Age sembra ormai essere il New Normal della New Left. Passi che i suoi alfieri fingano di dimenticare che liberalismo, socialismo e comunismo, agli albori, avevano accenti antireligiosi (talvolta sin troppo pesanti). Ma la denuncia dell’arcaismo delle imposizioni religiose fu un elemento centrale nelle battaglie femministe degli anni settanta e nell’impegno per ottenere il diritto al divorzio e all’aborto. Oggi va considerata praticamente svaporata. Eppure dovrebbero ricordarsene in molti – anche soltanto per aver letto qualche libro di storia a scuola.

L’hakunamatatismo è in espansione, a sinistra, e comincia a rappresentare una vera e propria impostazione ideologica, anche se (si spera) non ancora un dogma. Ha trovato una rappresentazione eloquente in un’affermazione della sardina Jasmine Cristallo: “Sono stati spesi soldi per liberare Silvia? Meglio che per comprare armi!”. Ma con quei soldi, quasi sicuramente, verranno proprio comprate altre armi, e non è quindi moralmente accettabile fare i pesci nel barile: va onestamente ammesso che la vita salvata a Silvia provocherà probabilmente altre morti e altri sequestri con richiesta di riscatto, in una spirale di violenza potenzialmente infinita.

È un dilemma etico che la sinistra conosce benissimo: perlomeno dal 1978, dal sequestro di Aldo Moro. Durante il quale gli antenati politici dell’attuale Pd (la Dc e il Pci) sostennero una linea della fermezza che costò la vita allo statista. Legittimo cambiare opinione: ma è quantomeno possibile discutere seriamente e serenamente della questione? E qui non stiamo parlando delle Brigate Rosse: stiamo parlando di Al Shabaab, ramificazione somala di Al Qaeda. Che ha alle spalle centinaia di stragi con una scia infinita di sangue. Ce l’ha rammentato Maryan Ismail, che ha perso suo fratello in un loro attentato. Jasmine Cristallo avrà letto la sua testimonianza?

Al Shabaab è una feroce organizzazione terroristica. I mass media, anche quelli che si pretendono “terzisti”, non hanno voluto ricordarlo più di tanto. Forse non avrebbero sottolineato nemmeno la sua matrice musulmana, se non fosse emersa così prepotentemente al momento della liberazione. Resta il fatto che è un’organizzazione terroristica islamica, e che chi tace su questa evidenza fa esattamente il gioco che si attendono i jihadisti.

Secondo l’imam di Napoli, “l’islam non accetta le conversioni forzate”. E siccome sta scritto nel Corano, ciò dimostrerebbe che “la conversione è stata libera”. Per quanto l’islam abbia un miglior rapporto con le conversioni rispetto al cristianesimo, l’imam dimentica che non solo Al Shabaab, ma anche altri gruppi terroristici islamici hanno largamente praticato le conversioni forzate. Ricordate le centinaia di ragazze rapite da Boko Haram? Il suo leader ci disse che il progetto iniziale era di venderle come schiave. Ma poi ha portato loro l’islam, e tanto gli basta per considerarle “liberate”, benché prigioniere (e alcune lo sono ancora). Com’è umano lui. L’Isis era in effetti più brutale: o la conversione o la vita. Ma persino nelle carceri inglesi vi sono gang musulmane che malmenano i prigionieri restii a convertirsi.

In merito all’apostasia, poi, l’islam ha credenziali identiche al cristianesimo: chi passa al nemico merita la morte. Ed è così ancora oggi, a differenza del cristianesimo. Al punto che la pena capitale per apostasia, su questo pianeta, è tuttora prevista in dodici stati – e sono tutti paesi a maggioranza musulmana. Gli imam preferiscono sorvolare, tanto la loro dottrina è palesemente crudele. Ma anche gli hakunamatatisti restano zitti, sul punto. Capita così che una donna brillante come Ayaan Hirsi Ali, somala anch’essa, attivista liberal e new atheist, finisca a lavorare in un think tank conservatore Usa. Perché è ormai troppo manifestamente “infedele” rispetto al canone della sinistra regressiva, come la definisce Majid Nawaz.

In tutto il pianeta (e persino in Italia, nonostante il silenzio che impera pure su questo argomento) è in corso un importante processo di secolarizzazione. Anche nel mondo musulmano sono in crescita i giovani che vorrebbero fare scelte diverse e più libere. Ma il mondo occidentale sta lavorando senza sosta per distruggere ogni loro aspirazione.

L’eventuale apostasia di Aisha

Ventidue anni, e tanta voglia di fare del bene in Africa. Poi il rapimento, e un anno e mezzo di prigionia in un paese tra i più disperati del mondo, nelle mani di un gruppo terrorista tra i più spietati del pianeta. E infine la liberazione, e con essa la rivelazione della scelta, “spontanea e non forzata”, di farsi musulmana. Ora si fa chiamare Aisha, come la sposa-bambina di Maometto.

La conversione di Silvia sembra aver fatto rumore quasi quanto ne generò quella di Cassius Clay – avvenuta in un’epoca molto diversa, per ragioni completamente diverse. Sul momento, a me ha ricordato quella (temporanea) di Salman Rushdie: un vano tentativo di indebolire la fatwa che pendeva (e tuttora pende) sulla sua testa. È in effetti attestato che le conversioni “sorprendenti” nascono spesso dalla necessità di superare una difficoltà ritenuta insormontabile. Una tesi suffragata in qualche modo dalla stessa madre, quando sostiene che “chiunque tornerebbe convertito”.

A guardare più attentamente, la realtà potrebbe però apparirci diversa. I reduci convertiti esistono, ma non sono la norma. Basta ripensare alla traiettoria di Primo Levi, che da Auschwitz tornò con un ateismo decisamente risoluto. Restando a casi noti, ma più simili e recenti, Giuliana Sgrena ha scritto un libro che parla (anche) dell’odio dell’islam contro le donne. Domenico Quirico ci va ancora più pesante, e Daniele Mastrogiacomo ha descritto nei giorni scorsi la sua resistenza ai tentativi di conversione da parte dei carcerieri musulmani.

Già. Il rapitore jihadista non vuole soltanto un riscatto: vuole anche la tua anima, come la volevano dai condannati a morte i confortatori dell’inquisizione. Una volta ottenuta, esibirà a tutti il trofeo: la notizia della conversione è stata accolta con esultanza nei sordidi ambienti dell’estremismo islamico. Anche se la prigionia e la tortura possono indubbiamente pesare, storie di questo tipo sono più frequenti in letteratura: nelle memorabili ultime righe di 1984, per esempio, con il protagonista che arriva ad amare veramente il Grande Fratello. La stessa sindrome di Stoccolma, tanto citata in questi giorni, non è però considerata una vera patologia dai manuali di psicologia. Dubbi sulla libertà della conversione sono stati peraltro espressi anche da un imam di Milano,

Silvia ha tutto il diritto di non dirci nulla, perché ogni credente ha il diritto di non dirci nulla sulle ragioni delle sue scelte. I laici dovrebbero essere i primi a sostenere che una persona non va giudicata soltanto per la fede che professa o per l’abbigliamento che indossa. Tuttavia, è laico anche far notare, come ha fatto Cinzia Sciuto, che “quando a una scelta personale si associa una manifestazione esteriore di quella scelta (come in questo caso l’abito) essa assume inevitabilmente un significato che va al di là della sfera personale. Quello che Silvia indossa non è – come si tenta di dire, minimizzandone il portato – un semplice abito tradizionale somalo ma una delle tante versioni dell’abbigliamento femminile islamista”. Ed è altrettanto laico sostenere che quanto accaduto, anche per la copertura mediatica che ha avuto (voluta o meno che sia stata), non aiuterà purtroppo in alcun modo sia i numerosi apostati che rischiano la pena di morte, sia i futuri sequestrati, sia ancora le donne che – come in Iran, musulmane o no che siano – sono obbligate a portare il velo. Tutte. Proprio in nome dell’islam di Aisha.

Ognuno deve essere libero di entrare e uscire da qualunque organizzazione. L’apostasia è un diritto umano, e lo ha recentemente ricordato anche Ahmed Shaheed, relatore speciale dell’Onu sulla libertà di religione e convinzione. La Somalia è uno dei dodici paesi in cui, se si viene accusati di apostasia, si può essere “giustiziati”. Se questa è la legislazione ufficiale, potete comprendere quanti scrupoli può avere Al Shabaab, che le sue condanne a morte per apostasia le commina dopo processi sommari, senza il diritto ad avere avvocati difensori. Le due religioni di Silvia non sono granché rispettose dei diritti dell’uomo – e delle donne. La sua apostasia ha scandalizzato la destra cattolica. Una sua seconda, pubblica apostasia metterebbe in pericolo la sua stessa vita. Ed è questo l’aspetto che la rende poco probabile.

Ma è un aspetto che non sembra interessare nessuno. Si preferisce continuare a insultarsi. “Sciacalli” vs “utili idioti”. La negazione di qualunque problema vs la convinzione che il problema si può risolvere soltanto usando le maniere fortissime. Ma, continuando così, i problemi si accresceranno e basta. Ci siamo infilati in un vicolo cieco? C’è da temerlo. Di certo, da questa vicenda l’islam non guadagnerà nulla (quantomeno in Italia), la cooperazione internazionale nemmeno, il mediatore (il sultano islamista Erdogan) parecchio, Al Shabaab tantissimo.

E Silvia/Aisha? Forse non potrà più dire la sua, e forse finirà sotto protezione. Non è il carcere, ovvio, ma non è nemmeno la piena autonomia. Una giovane donna è stata liberata. Quanto sia veramente libera, non lo sa probabilmente nemmeno lei.

Raffaele Carcano

Foto: Governo.it



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