lunedì 8 ottobre 2012 - ///

L’Italia piange Stazzema, ma rende onore al suo più feroce criminale di guerra

Strano Paese, l'Italia.

Il 1° ottobre la Procura di Stoccarda ha archiviato l'inchiesta per la strage nazista di Stazzema, costata la vita a 560 persone. L’archiviazione, secondo i magistrati, è stata motivata da due ragioni: non è più possibile stabilire il numero esatto delle vittime; era necessario per l’emissione di un atto di accusa che venisse comprovata per ogni singolo imputato la sua partecipazione alla strage. Dura la reazione della gente e di tutte le autorità, dal sindaco del piccolo comune in provincia di Lucca fino al presidente Napolitano.

Per l'ennesima volta la Germania sbatte contro il muro della vergogna, si è detto. Peccato che anche l'Italia abbia le sue colpe. Colpe che oggi non solo non nasconde, ma addirittura celebra.

L'11 agosto il comune di Affile (Lazio) ha inaugurato un un sacrario dedicato al Maresciallo d’Italia Rodolfo Graziani, ministro della Difesa di Salò. Impiegato nel Regio esercito italiano, nel ventennio fascista operò nella guerre coloniali italiane: nella "riconquista" della Libia (1921-1931) e durante la Guerra d'Etiopia e nella successiva repressione della guerriglia abissina (1935-1937). Venne inserito dall'ONU nella lista dei criminali di guerra (per l'uso di gas tossici e bombardamenti degli ospedali della Croce Rossa), su richiesta dell'Etiopia ma non venne mai processato. Fu invece processato e condannato a 19 anni di carcere per collaborazionismo, ma scontati quattro mesi fu scarcerato.

Mentre la notizia ha suscitato lo sdegno della stampa internazionale (si vedano: BBCEl PaisNew York TimesTelegraphNational Turk), qui in Italia ci si è lamentati soprattutto sull'utilizzo di fondi pubblici per la realizzazione del monumento (127.000 euro, finanziati dalla Regione Lazio), mettendo in secondo piano che l'inaugurazione rappresenta non tanto uno spreco di soldi, quanto un'offesa all'Italia democratica.

La comunità non è però rimasta a guardare. A un mese dall'inaugurazione, l'opera è stata imbrattata da tre giovani con la scritta "Chiamate eroe un assassino". Il 23 settembre ad Affile si è tenuta una manifestazione promossa dal Comitato “Affile antifascista”, intitolata “Non in mio nome”, accompagnata da un dibattito alla presenza, tra gli altri, del presidente della Comunità etiopica in Italia, Maluwork Ayele.
Dopo l'appello lanciato dal gruppo consiliare di SEL alla provincia di Roma e l'interrogazione parlamentare del senatore Vincenzo Maria Vita, alla fine anche la stampa nazionale ha cominciato ad occuparsi del risvolto storico-politico della questione. Da segnalare un articolo di Gian Antonio Stella, il quale, con la consueta incisività, vede la questione così:

Rimuovere il ricordo di un crimine, ha scritto Henry Bernard Levy, vuol dire commetterlo di nuovo: infatti il negazionismo «è, nel senso stretto, lo stadio supremo del genocidio». Ha ragione. È una vergogna che il comune di Affile, dalle parti di Subiaco, abbia costruito un mausoleo per celebrare la memoria di quello che, secondo lo storico Angelo Del Boca, massimo studioso di quel periodo, fu «il più sanguinario assassino del colonialismo italiano». Ed è incredibile che la cosa abbia sollevato scandalizzate reazioni internazionali, con articoli sul New York Times o servizi della Bbc,ma non sia riuscita a sollevare un’ondata di indignazione nell’opinione pubblica nostrana. Segno che troppi italiani ignorano o continuano a rimuovere le nostre pesanti responsabilità coloniali.
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Ciò che meraviglia è che ancora oggi il nuovo mausoleo venga contestato ricordando le responsabilità di Graziani solo dentro la «nostra» storia. Perfino Nicola Zingaretti nel suo blog rinfaccia al maresciallo responsabilità soprattutto «casalinghe».
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Fu lui, l’«eroe di Affile», a coordinare la deportazione dalla Cirenaica nel 1930 di centomila uomini, donne, vecchi, bambini costretti a marciare per centinaia di chilometri in mezzo al deserto fino ai campi di concentramento allestiti nelle aree più inabitabili della Sirte. Diecimila di questi poveretti morirono in quel viaggio infernale. Altre decine di migliaia nei lager fascisti.
E fu ancora lui a scatenare nel ’37 la rappresaglia in Etiopia per vendicare l’attentato che gli avevano fatto i patrioti. Trentamila morti, secondo gli etiopi. L’inviato del Corriere, Ciro Poggiali, restò inorridito e scrisse nel diario: «Tutti i civili che si trovano in Addis Abeba hanno assunto il compito della vendetta, condotta fulmineamente con i sistemi del più autentico squadrismo fascista. Girano armati di manganelli e di sbarre di ferro, accoppando quanti indigeni si trovano ancora in strada... Inutile dire che lo scempio s’abbatte contro gente ignara e innocente».
I reparti militari e le squadracce fasciste non ebbero pietà neppure per gli infanti. C’era sul posto anche un attore, Dante Galeazzi, che nel libro Il violino di Addis Abeba avrebbe raccontato con orrore: «Per tre giorni durò il caos. Per ogni abissino in vista non ci fu scampo in quei terribili tre giorni in Addis Abeba, città di africani dove per un pezzo non si vide più un africano».
Negli stessi giorni, accusando il clero etiope di essere dalla parte dei patrioti che si ribellavano alla conquista, Graziani ordinò al generale Pietro Maletti di decimare tutti, ma proprio tutti i preti e i diaconi di Debrà Libanòs, quello che era il cuore della chiesa etiope.
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Saputo del monumento costato 127 mila euro e dedicato al maresciallo con una variante sull’iniziale progetto di erigere un mausoleo a tutti i morti di tutte le guerre, i discendenti dell’imperatore etiope, come ricorda il deputato Jean-Léonard Touadi autore di un’interrogazione parlamentare, hanno scritto a Napolitano sottolineando che quel mausoleo è un «incredibile insulto alla memoria di oltre un milione di vittime africane del genocidio», ma che «ancora più spaventosa» è l’assenza d’una reazione da parte dell’Italia.
Rodolfo Graziani «eseguiva solo degli ordini»? Anche Heinrich Himmler, anche Joseph Mengele, anche Max Simon che macellò gli abitanti di Sant’Anna di Stazzema dicevano la stessa cosa. Ma nessuno ha mai speso soldi della Regione Lazio per erigere loro un infame mausoleo.

Il problema non sono i soldi della Regione Lazio, già nel ciclone per le vergognose peripezie di Fiorito. E' l'Italia che non ci fa una bella figura. Il blog Focus on the Horn, dopo aver raccolto una serie di dichiarazioni di sconcerto nel mondo accademico internazionale, si concentra sul "problema irrisolto" del nostro passato coloniale, affermando che "è improbabile che tale palese amnesia storica aiuti la reputazione dell'Italia all'estero", che "le sistematiche violazioni dei diritti umani nell'Africa Orientale Italiana non sono mai state sufficientemente riconosciute", e che ancora oggi "molti italiani rimangono ignoranti" al riguardo. Gli autori concludono così:

forse le autorità italiane dovrebbero seguire il consiglio di Alex de Waal, uno dei promotori della recente apertura del Memoriale per i diritti umani dell'Unione Africana. "Lasciate che il mausoleo di Affile serva come un memoriale alle vittime dei suoi crimini ... per ricordare che le barbarie di tali ideologie disumane non saranno più tollerate. Lasciate che questo monumento sia inciso con i nomi di almeno alcuni di coloro che sono morti per mano sua [di Graziani], e lasciate che il giudizio dei loro discendenti e dei rappresentanti sia distintamente visibile".



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  • (---.---.---.15) 8 ottobre 2012 16:36

    Tutti i racconti che vengono fatti su questi episodi si rifanno alla penna di Angelo Del Boca, che maldestramente chiama in causa Indro Montanelli come documentazione storica del suo asserto; sentiamolo: “Montanelli ad esempio ha finalmente ammesso l’impiego dei gas in Etiopia”. Sentiamo ora il Montanelli dell’ultima ora, l’antifascista e decano dei giornalisti italiani: “Se la guerra a cui ho partecipato corrisponde a questi connotati, vuol dire che io ne ho fatta un’altra. Che non c’ero. Ma quali gas?” Ed ancora: “Vorrebbe dire che ero cieco, sordo, imbecille. No, guardi di quelle cose non c’era traccia. Una cosa sono le carte, che possono anche essere scritte per la circostanza, un’altra le testimonianze vissute‘”

    Qui una delle due versioni è vera ed allora l’altra è sicuramente falsa, o perlomeno ad arte ingigantita. Aveva ragioni Montanelli sulle carte che possono essere state scritte per la circostanza, d’altra parte “lo stesso Winston Churchill nella sua “La Seconda Guerra Mondiale”, a pag. 210, esclude l’uso dei gas nei seguenti termini: “I gas asfissianti sebbene di sicuro effetto contro gli indigeni non avrebbero certo accresciuto prestigio al nome d’Italia nel mondo“.

    Le notizie di cui sopra le ho ricavate dal blog “Ricordare…” alla voce “L’Etiopia e i gas asfissianti” che riporta tanti e tali dati e testimonianze nelle sue scarne righe da rendere inutili le numerose pagine di un unico autore, riferimento “storico” solitario di una categoria di “scrittori” che pendono dalle sue labbra o meglio dalla sua penna, intinta in un inchiostro che non convince.

    Con ciò non intendo assolvere nessuno se uso dei gas. anche solo per fini tattici, sia stato fatto, ma solo chiarire che un uso così unidirezionale e sospetto dei dati non mi convince. Perché gli “italioti”, la definizione non mia è tuttavia opportuna, denigratori dei nostri legionari non ricordano la morte dei piloti Tito Minniti e Livio Zanone che, dopo un atterraggio di fortuna, caddero in mani abissine e furono decapitati e le loro teste impalate furono portate a Giggica come trofei di guerra. Sembra che, in quella occasione, un impiego dei gas sia stato autorizzato. Quei civilissimi guerrieri che torturavano e seviziavano con il rito dell’evirazioni gli sventurati prigionieri di guerra che cadevano nelle loro mani erano il nerbo delle truppe dell’imperatore che godeva dell’alta protezione della corona d’Inghilterra. 

    Ma i denigratori, che non parlano dei crimini etiopici, dovrebbero limitarsi nell’intingere la loro penna nell’inchiostro avvelenato della loro partigianeria politica per scrivere pagine che stanno usurpando il nome della storia e che rischiano di essere scambiate per storia vera per le generazioni avvenire. Poiché i reduci superstiti, testimoni oculari di quella guerra, hanno espresso indignazione per le denigrazioni che hanno sdegnosamente respinto, essi sono stati considerati scomodi testimoni di parte mentre sono ritenute credibili le parole del sanguinario ras Immirù Hailè Sellasse che parla di alcune centinaia di uomini colpite non da bombe ma fusti che proiettavano intorno un liquido incolore come l’acqua, mentre George Steer, inviato del Times in Europa parla di sei bombe C-500 T caricate ad yprite che diventeranno sessanta nel rapporto del Negus alla Lega della Nazioni.

    L’yprite se purissima può essere incolore ed assai rifrangente. ma nel caso d’impiego di massa è difficile che abbia tale requisito di purezza dovendo essere piuttosto assimilabile ad un liquido molto sporco, dal giallo al marrone, ed inoltre in quella caduta in acqua non avrebbe potuto sprigionarsi alcun liquido in quanto la sua ebollizione avviene a 218 gradi centigradi, temperatura alla quale si decompone, mentre, essendo più pesante dell’acqua (1,27) e con essa non miscibile, sarebbe andata al fondo senza dispendersi nell’ambiente. Certamente più attendibile, fra le due contrastanti versioni, quella del giornalista statunitense che parla di sei bombe C-500 T, realmente in dotazione all’aeronautica militare italiana per impiego autorizzato “eccezionalmente” nel caso che da parte del nemico si facesse uso di armi non convenzionali. Cosa che era regolarmente avvenuto ed era stato portato a conoscenza delle autorità, si fa per dire, di Ginevra. L’azione dell’agente vescicante yprite, tuttaltro che sottovalutabile, è tuttavia assai lenta  manifestandosi dopo alcune ore, talvolta fino a ventiquattro, ed è meno efficace su individui privi di indumenti essendo l’impregnazione di questi assai più pericolosa per la persistenza del contatto sulla pelle. Non si vuole sminuire qui la pericolosità dell’agente vescicante, e tantomeno del fatto in sé, ma semplicemente mettere in evidenza la fantasiosa ricostruzione del ras Immirù e l‘ingenuità o la malafede dell’ascolto ignorante, perdonatemi l’espressione, di colui che ha raccolto la sua descrizione del fatto. Ma sentiamola per intero questa descrizione per allocchi: “Era la mattina del 23 dicembre avevo da poco attraversato il Tacazzè quando comparvero nel cielo alcuni aeroplani... quel mattino non lanciarono bombe ma strani fusti che si rompevano non appena toccavano il suolo o l’acqua del fiume e proiettavano intorno un liquido incolore... alcune centinaia dei miei uomini erano rimasti colpiti... e urlavano per il dolore, mentre i loro piedi nudi, le loro mani, i loro volti si coprivano di vesciche. "Professor del Boca questa è una menzogna scientificamente provata e il Ras Immirù oltre che un assassino era un gran bugiardo, avendo descritto uno spettacolo inverosimile. Al suo prossimo libro, di cui consiglio il titolo: “Abissini buona gente”!

    Vi ho descritto la caratteristiche chimico-fisiche e l’azione terribile, ma ritardata di ore, dell’yprite, che si scioglie lentamente per la sua azione lipofila attraverso il grasso della pelle, mentre viene respinta dal sudore; non rimane che conoscere, o intuire, il nome degli allocchi e dei falsari. Per quanto riguarda ras Immirù solo ad avvicinarsi a lui per intervistarlo ci si poteva sporcare del sangue di italiani, quelli sì brava gente; e qualcuno non ebbe quel timore.

    Che Ras Immirù ed il suo interlocutore fossero ignoranti di chimica, non potevo avere dubbi; che fossero poco credibili nemmeno. Ma vediamo chi era questo leggendario personaggio, interlocutore privilegiato dei nostri storici e della Lega delle Nazioni: “il 13 febbraio 1936 a Mai Lahlà operava, ubicato  imprudentemente oltre il Mareb, un cantiere Gondrand. Su questo opificio piombò una banda di 2.000 guerriglieri abissini al comando del Ras Immirù, che dopo aver ucciso in modo atroce tutti gli operai, torturarò, come sapevano fare, l’ingegnere milanese Cesare Rocca fino ad ucciderlo. Violentarono ripetutamente la moglie Lidia Maffioli e, prima di finirla, le misero in bocca i testicoli del marito. Nel caso del genere, contro gli autori di simili misfatti, l’uso dei gas sarebbe stato più che motivato. Le Convenzioni de l’Aja e di Ginevra tra l’altro stabilivano: “ …la rappresaglia è, cioé, un atto di violenza isolata nel tempo e nello spazio, avente lo scopo di imporre il rispetto del diritto in relazione ad una violazione subita”. E ancor più chiaramente precisavano: “La scelta delle misure da infliggere spetta allo Stato offeso. Questo, però, prima di passare all’azione, deve assicurarsi che l’offensore non voglia o non possa riparare il danno”. E veniamo allora ai “Gas di Mussolini”, citando una nuova testimonianza, questa volta di Alberto Franci (Voce del Sud, 18/5/1996): “Chi scrive, allora giovanissimo, seguiva attentamente le operazioni belliche attraverso la stampa italiana ed estera, e ricorda ancora qualche episodico impiego di gas contro gli Etiopi, ma a puro scopo di rappresaglia, a causa di violazioni di norme internazionali commesse dalle formazioni etiopiche …”

    Involontariamente, spinto dall’odio storico contro l’Italia nel libro “guerra d’Etiopia l’autore parlando di Graziani così dice: “Di ras Destà Damteu traccia un ritratto assai poco benevolo”. L’’inesperienza del ras, rassicura Del Boca, verrà supportata da “tre maturi e sperimentati generali” fra cui uno dei ras meritevole per avere umiliato gli Italiani nella bruciante sconfitta di Adua e, a completare il gruppo di esperti il Tenente Belga .Armand Frere. Quest’ultimo cobelligerante degli Abissini, sarà un osservatore “neutrale” ed obiettivo dei crimini italiani. Così veniva descritto il tenente Frere dall’imperatore Selassié “Un uomo del Belgio, che conosce i servizi militari di guerra. Data la sua capacità per i lavori di fortificazione e per quelle precauzionali di sorveglianza in caso di attacco nemico, certamente ci sarà d’aiuto”. Fra i tre sperimentati generali, dice del Broca, c’era anche l’ex governatore di Harar degiac Debbay Ualde Ammanel, autore nel 1931 di una spericolata spedizione in territorio somalo alla testa di 12.000 uomini. E qui casca l’asino o disattenti lettori dei libri del professore. Questi valorosi abissini guidati, non da predoni non identificabili, ma da un generale nella stima dell’imperatore, avevano oltrepassato i confini della Somalia già nel 1931, un vero proprio atto di guerra sfuggito alla severità della SDN.


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