mercoledì 7 settembre 2022 - Enrico Campofreda

L’India del ’riciclo’

Seelampur, che il fiume Yamuna distanzia da Delhi solo a quattro chilometri sulla sponda sinistra, è uno dei luoghi dove l’indiano povero che deve mangiare va a ravanare in discarica.

 Un cimitero particolare che dismette tecnologia da cui si ricava non direttamente cibo, come pure si vede in taluni sobborghi di Calcutta con immondezzai annessi alle casupole, bensì materiale di scarto dell’hi-teach che viene concentrato proprio lì. Una parte arriva dall’area casalinga di Bangalore, a oltre duemila chilometri sud del Paese. Ma anche dalla cinese Hangzou 4.200 chilometri in linea d’area e settemila via terra oppure direttamente dagli Stati Uniti, che inviano cargo stracolmi di container dal Pacifico e dall’Atlantico. Così uomini, donne, ragazzini giungono sui montarozzi del distretto di Shahdara, dove sorgono anche edifici colorati, ma s’indirizzano nel punto di concentrazione, dismissione, smembramento, riciclo di computer, televisori, cellulari, batterie e ogni ben di dio dell’elettronica. Fase ciascuna pericolosissima per persone, luoghi, cose, ma si deve pur mangiare… Chi la frequenta può guadagnare un pugno di rupie, duecento, cioè due dollari e poco più, se è un minorenne. Oppure una decina di dollari se è un uomo fatto con forza di braccia e resistenza per le ore e ore di raccolta, frazionamento e trasporto verso i compratori, che poi sono trafficanti a tutti gli effetti. Per raggiungere quelle cifre, questi dannati, lavorano un giorno intero con martelli, pinze, cacciaviti, seghe. I meno attrezzati sassi. Sono coscienti, comunque, che in miniera o in una cava di pietre la fatica salirebbe. L’oro che lì ricavano sono appunto metalli anche preziosi - oro e argento - presenti a filamenti in alcuni congegni, più comunemente il preziosissimo rame, e alluminio, e piombo.

La separazione dalle scocche di plastica, ad esempio dei vecchi pc, avviene sul posto, nei mesi estivi sotto il solleone, in altri casi in luoghi deputati allo smontaggio, con l’aggravio del trasporto di roba che deve tornare in discarica: le dette plastiche che non hanno valore per il mercato tutto interno ai materiali del “riciclo hi-teach”. Usiamo questo termine perché lo pronunciano le stesse autorità locali che non solo chiudono gli occhi sui rapporti ‘mercantili’ fra spazzini-smembratori e piazzisti-mafiosi dei metalli, ma fanno rientrare in un’economia virtuosa l’intero ciclo, pur privato di qualsiasi responsabilizzazione sull’inquinamento diretto e indiretto della zona. Tacendo, ovviamente, sulla salute pubblica di chi, martellata dopo martellata, entra in contatto con litio, cadmio, respira acidi senza protezione alcuna, perché le mascherine non sono state usate per la Sars figurarsi per simili lavoretti, e alla fine ne cosparge il terreno. Insomma l’occhio vede, il cuore non duole. Del resto gli anni della pandemia di Covid-19 che hanno fatto vacillare Pil, occupazione legale e illegale e in certi casi la possibilità alimentare di milioni di cittadini, hanno incrementato il colpo di spugna ai già scarsi controlli. E comunque per chi esegue quel compito, importante sono i due o dieci dollari. E anche quest’ultimi per sfamare una dozzina di bocche in famiglia possono non bastare: l’economia indiana è in ripresa, però l’inflazione cresce trascinando in alto qualsiasi prezzo. In epoca di pandemia sono venute meno pure talune statistiche, così i dati a disposizione sul materiale elettronico mandato al macero risultano vecchi d’un triennio: ammontavano a 53.6 milioni di tonnellate globali, con tanta robetta in viaggio dall’Occidente e 3.2 milioni di tonnellate di scarti fatti in casa.

Enrico Campofreda




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