mercoledì 24 settembre 2014 - Antonio Moscato

L’IS, spauracchio di turno

Gran parte degli italiani, oggi, sono angosciati dalla minaccia incombente dell’IS, lo Stato Islamico. Non potrebbe essere altrimenti, dopo alcuni mesi di informazione a senso unico, che ha rifritto per giorni alcune notizie più o meno fantasiose, e ha creato un clima di isteria antiislamica che ha portato anche ad assalti a gruppi di migranti, seminando l’allarme nelle comunità islamiche meglio inserite, che hanno dovuto cominciare una campagna di controinformazione.

Contemporaneamente l’allarme mediatico sul virus Ebola, presentato in modo tale da giustificare l’invio di migliaia di marines in Africa… per tenere sotto controllo i territori infetti, ha alimentato altre polemiche della destra (a cui si è unito irresponsabilmente Beppe Grillo) sui pericoli di contagio rappresentati dai chiedenti asilo provenienti dall’Africa. Di quelli in arrivo da Siria, Iraq e Palestina, nessuno si preoccupa, e nessuno parla. Forse perché è più difficile presentarli come possibili “untori”.

L’informazione sui grandi quotidiani è pessima: la maggior parte degli italiani di conseguenza percepisce vagamente un pericolo, accetta che lo si fronteggi con mezzi militari, ignora tutto, fuorché il nome, dei paesi in cui mettiamo il naso, per impossessarci delle loro risorse energetiche, o per tenerli a bada addestrando le loro forze di polizia.

Ci sono naturalmente alcune lodevoli eccezioni, che meritano per questo di essere segnalate. La prima è quella di un denso volume di Limes (n.° 9, settembre 2014, 240 pagine) dedicato a Le maschere del Califfo, che fornisce preziose informazioni e smonta le mistificazioni più diffuse. Ad esempio, già nella presentazione (come al solito non firmata) del numero, si dice francamente fin dalle prime righe che “lo Stato islamico (IS) non è l’apocalisse dipinta dal coro dei media internazionali e da leader di ogni colore, non solo occidentali”. Il suo capo, Abu Bakr al-Baghdadi, è un «califfo» molto virtuale. Ma giustamente si aggiunge che “lo Stato islamico (…) non vale tanto per quel che è, ma per come viene percepito, reinterpretato e usato dalle potenze locali, regionali e globali”.

Limes prosegue spiegando che non deve ingannare il modesto peso specifico dello Stato islamico, dato che “nel caos contemporaneo le scorribande del «califfo» possono però produrre effetti sistemici grazie alla formidabile confusione nella sua area di operazioni, alla delegittimazione dei regimi sopravvissuti alla prima fase della cosiddetta «primavera araba» o da essa prodotti, al vuoto strategico di ciò che residua dell’Occidente”.

Anche perché l’IS è scaltro nel cavalcare le nuovissime tecnologie dell’informazione con messaggi calibrati sulle varie audiences, sfruttando il riflesso giornalistico che lo presenta come il mostro di stagione.

Il testo prosegue raccomandando “un’analisi fredda dello Stato islamico” e chiede di non fissare lo sguardo solo sulle modalità volutamente efferate delle sue azioni, peraltro “non così straordinarie in quel contesto”. Ad esempio le decapitazioni pubbliche sono prassi corrente in Arabia Saudita, ma vengono taciute perché quel paese è parte essenziale del “fronte antiterroristico a guida americana” (insieme a Israele, alleata di fatto da tempo dell’Arabia Saudita pur senza avere relazioni diplomatiche, unico caso nella storia…). In qualche modo è stato coinvolto anche quello che finora era il nemico giurato della dinastia saudita, l’Iran, a cui sono dedicati molti saggi interessanti della seconda parte della rivista. Fa eccezione la piccola sezione dedicata alla questione palestinese, che contiene testi ambigui o più che discutibili.

Senza dilungarmi nell’elencazione degli articoli principali, quasi tutti ricchi di notizie, (ad esempio Alberto Negri sottolinea la inspiegabile benevolenza degli USA nei confronti di al-Baghdadi, catturato e poi rilasciato) vorrei sottolineare ancora un passo dell’introduzione in cui si segnala tra le cause dell’improvviso successo dell’IS il vuoto lasciato dalle primavere arabe:

“È di moda archiviare la «primavera araba» - marchio davvero sfortunato, istruttivo caso di sovrapposizione orientalista alle dinamiche endogene – come «inverno arabo», o «islamico». Errore grave. Le rivolte esplose quasi quattro anni fa in Tunisia e in Egitto, presto diffuse dalla Libia alla Siria, dal Bahrein allo Yemen e oltre, contro cui si è mobilitato un fronte controrivoluzionario centrato sull’Arabia Saudita e sui suoi emirati satelliti, non hanno affatto esaurito la loro spinta propulsiva. Se è vero che quel turbine sorgeva dai profondi mutamenti geopolitici, economici, culturali e sociali sopra accennati, conviene attendere prima di emettere sentenze affrettate.”

La seconda eccezione è il meritorio lavoro di organi on line come East Journal. Da cui riprendo volentieri un recentissimo articolo ben informato sulla galassia delle organizzazioni curde, di cui alcune sono ancora inserite assurdamente nella lista di quelle “terroriste”, mentre sono diventate improvvisamente beneficiarie della nostra attenzione e di modeste (a volte misere) forniture di armi. Per usarle come? 

 

Foto: Quinn Dombrowski/Flickr



1 réactions


  • (---.---.---.181) 26 settembre 2014 07:38

    “nel caos contemporaneo le scorribande del «califfo» possono però produrre effetti sistemici grazie alla formidabile confusione nella sua area di operazioni, alla delegittimazione dei regimi sopravvissuti alla prima fase della cosiddetta «primavera araba» o da essa prodotti, al vuoto strategico di ciò che residua dell’Occidente”.

    Questo mi pare il cuore del discorso. Le modeste proporzioni (anche militari) del califfato sono comunque in grado di attivare aspettative e movimenti panislamisti di portata ben al di là della consistenza attuale. Da notare in particolare il "vuoto strategico" occidentale (ingenuamente affermato anche pubblicamente da Barack Omaba) che fa a cazzotti con il complottismo diffuso che vorrebbe interpretare il califfato come una marionetta nelle mani di abili e sottilissimi (quanto incomprensibili) strateghi occidentali e/o sionisti.

    Esiste invece una chiara strategia islamica (sunnita) che si sa muovere sia sul terreno che negli ambiti politici internazionali e, ancor più, in quelli comunicativi.
    Veicolando cosa ? Quale ideologia ? Quali finalità ?

    Ebbene, se si può concordare che necessita “un’analisi fredda dello Stato islamico” senza "fissare lo sguardo solo sulle modalità volutamente efferate delle sue azioni", non ci viene però detto a che cosa porta questa "analisi fredda". Che è invece il cuore del problema. Quindi, stringi stringi, resta poco.
    Dell’occidente sappiamo che non ha una strategia, del califfato - a parte le azioni efferate - non ci viene detto altro. Forse perché bisognerebbe ammettere che siamo di fronte a uno scontro religioso e questo lascia perplessi gli analisti di matrice razionalista-marxista.

    L’unica nota davvero stonata in questo articolo è la solita, trita critica ai pezzi sulla Palestina. Che sono invece davvero equilibrati e solidi. In particolare il bravo Giovanni Fontana.


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