martedì 23 agosto 2022 - Enrico Campofreda

L’Emirato afghano nel condominio asiatico

Se fra i Paesi confinanti col territorio afghano Pakistan e Iran accolgono gran parte dei fuggiaschi - rispettivamente 1.3 milioni e 800.000 profughi e continuano a rappresentare le nazioni rifugio per ogni tipologia: ex membri dell’esercito e funzionari di Ghani, sfollati da città di confine come Jalalabad ed Herat, piccoli mercanti che non si fidano del regime e rivolgono altrove il loro commercio minuto - anche Turkmenistan, Uzbekistan e Tajikistan sono coinvolti in un via-vai d’interessi. 

Coi tajiki e la stirpe Massud i taliban hanno vecchi conti in sospeso. Nella primavera 2021 il figlio del defunto leone del Panshir, Ahmad junior, era stato accreditato di una pseudo-resistenza all’avanzata talebana che invece non ha trovato ostacoli fino alla presa di Kabul. L’enclave della famosa valle non ha rappresentato né una diga né un’alternativa al successo dei miliziani coranici. Il leoncino e i suoi fedeli sono riparati a Dushambe e per i sei milioni di tajiki, da generazioni radicati nell’area settentrionale dell’Afghanistan, la vita nell’Emirato è diventata più dura. Come per gli hazara sparsi fra la provincia di Herat, quella di Bamiyan e la stessa capitale. Del resto negli oltre 1.300 km di confine con lo Stato tajiko i sei punti di attraversamento fra le due nazioni sono da un anno in mano talebana e chi vuole espatriare deve ricevere l’assenso loro e di chi sta al di là. Inoltre su questo limite i turbanti dell’Emirato sono coadiuvati dai combattenti della Jamaat Ansarullah, l’ala tajika del Movimento Islamico dell’Uzbekistan a Dushambe bollata come terrorista. Così il locale presidente Rahmon, adducendo ragioni di sicurezza, negli ultimi mesi ha mobilitato truppe verso una frontiera diventata nient’affatto tranquilla.

Da parte sua l’Uzbekistan è concentrato sulla questione dei servizi di cui l’Afghanistan è privato da decenni, con l’aggravio dei venti anni d’occupazione della Nato che dei 2000 miliardi di dollari lì convogliati ha fatto scempio senza creare alcuna infrastruttura. Tutt’oggi il 60% delle forniture elettriche presenti sul territorio afghano provengono dall’Uzbekistan, sebbene gli attuali governanti di Kabul non stiano pagando le forniture, sostenendo di non essere in grado di farlo. Eppure nonostante i black-out la corrente corre. Fra i confinanti settentrionali a tendere una mano alla pochezza economica afghana c’è pure il Turkmenistan, che durante il primo Emirato s’era posto in posizione neutrale davanti al mullah Omar. Ora da Ashgabat dicono che i bistrattati vicini necessitano di quegli aiuti che l’Occidente nega, però solo un’economia normalizzata può portare sicurezza e stabilità. Volendo far seguire alle parole fatti sempre aleggia il progetto del gasdotto Tapi, basato appunto sul business energetico. Se ne parla da più d’un decennio, le condotte sono già posate in territorio turkmeno, parzialmente altrove, nulla nel lungamente belligerante e travagliato Afghanistan. I taliban, accettando i lavori in loco, avevano promesso 30.000 unità per controllare i cantieri nelle provincie attraversate dalle condutture. Ma l’incapacità di garantire la sicurezza anche in pieno centro di Kabul ha bloccato nuovamente tutto, come ai tempi di Ghani e degli americani. Quella pipeline fa gola all’esplosivo dell’Isis Khorasan e chi finanzia non vuol gettare al vento denaro. In attesa di chissà quale vigilanza, il Tapi resta fermo. Nel loro pragmatismo spiccio i coranici hanno patteggiato con Ashgabat un migliaio di tonnellate di metano per tirare avanti nei prossimi mesi. Poi si vedrà.

Di Pakistan e Iran s’è detto dell’accoglienza, concessa o forzata, alla massa afghana. Con conseguenti differenze. Teheran ha accettato oltre tremila militari del disgregato esercito kabuliota in cambio di cosa non è chiaro, invece sul lunghissimo limite orientale che ricalca la coloniale ‘linea Durand’ un vulnus è costituito dall’area tribale delle Fata dove spadroneggiano i Tehreek-i Taliban. Il governo di Islamabad la vorrebbe inglobare azzerandone l’autonomia. Oltreconfine il clan Haqqani, forte di ministeri chiave nell’Emirato, rappresenta una garanzia per il fondamentalismo pakistano, non certo per l’attuale premier Sharif. Il quale, nello scorso aprile, appena insediato ha ordinato o avallato gli attacchi dei propri militari nella zona contestata. Il fuoco dall’alto era garantito da droni di fabbricazione cinese e come in altre occasioni i missili hanno falciato anche civili. A seguito di questi attacchi in Pakistan le condutture del Tapi, che da Herat e Kandahar dovrebbero proseguire per Quetta, non hanno visto avanzamento di lavori perché si temono attentati. E l’energia fa addirittura retromarcia: anziché gas giunge carbone afghano che non viene pagato in dollari bensì in meno appetibili rupie pakistane. Prendere o lasciare. I talebani non sono nella condizione di lasciare. L’unico flusso ininterrotto, su confini in certi casi blindati, è quello dell’eroina. Alla tradizionale porta iraniana s’è aggiunta e ampliata quella tajika che, a detta di chi studia le ‘vie della droga’, conduce con maggiore facilità al mercato russo. Ai proventi diretti dei trafficanti - per ora non ci sono prove che uomini di spicco dell’Emirato pratichino il commercio ma non c’è neppure certezza del contrario - s’aggiungono le ‘tasse di dogana’ che The Economist ha calcolato fra i 27 e i 35 milioni di dollari. Neppure tanto se il passaggio d’ogni genere di merce frutta annualmente dieci volte di più: 245 milioni di dollari.

Enrico Campofreda




Lasciare un commento