martedì 6 giugno 2023 - Enrico Campofreda

L’Afghanistan delle vedove sole

La vita delle vedove senza figli nell’Afghanistan, ancor più talebano, è un rovo spinoso nel quale districarsi lascia graffi e ferite che restano silenziate. I drammi quotidiani sono talmente tanti che situazioni simili paiono inezie, anche perché risultano una “normalità” diffusa. 

Già ai tempi della guerra civile - quindi una trentina d’anni e due generazioni addietro - molte afghane restavano senza marito, una condizione protratta sotto l’occupazione della Nato. La morte violenta in quel Paese più che una variabile era una costante. Ovviamente non per tutti, ma i cospicui numeri dei decessi bellici, sono sempre passati in secondo piano. Non solo quelli causati da signori della guerra, miliziani taliban e jihadisti, ma in parte anche quelli prodotti dai democratici soldati occidentali autori dei cosiddetti “danni collaterali”. Le cifre approssimative venivano fornite da un’apposita agenzia dell’Onu. Poi, come dappertutto, si muore per malanni e questi aumentano dove la povertà e l’insicurezza sono di casa. Mutato da un biennio l’orizzonte politico, sappiamo delle difficoltà economiche e alimentari d’una nazione che resta nell’oblìo degli stessi aiuti umanitari, cosicché trentacinque milioni di afghani pagano le colpe d’un regime che non hanno scelto, come non sceglievano le soluzioni imposte dalla Nato. Resta la vita grama delle vedove, un’esistenza dura anche durante le presidenze Karzai e Ghani, che raggiunge l’acme per chi supera i quarant’anni e difficilmente trova un nuovo consorte. Gli uomini cercano ragazze giovani con cui avere una prole. Perpetuare e ampliare la consuetudine d’una certa interpretazione della Shari’a che costringe la donna a essere accompagnata, fuori dal perimetro domestico, da un maschio di famiglia - il mahram - comporta a chi è lontana dal territorio d’origine, dove normalmente risiedono i parenti, difficoltà insuperabili. Queste donne sono gravate dall’impossibilità addirittura del sostentamento, poiché non possono recarsi ad acquistare cibo e spesso non hanno denaro per procurarselo a causa delle restrizioni lavorative imposte dal nuovo Emirato. Senza nessuna occupazione, senza uomini di famiglia, senza figli queste vedove si riducono a sostare per via immerse nel proprio burqa a sperare nel pio gesto della zakat da parte di passanti e acquirenti del bazar. Solitamente si tratta d’un nân, offerto in aggiunta a quello comperato per la famiglia che madri caritatevoli offrono alle sventurate. Sembra un paradosso eppure rappresenta l’ennesimo momento buio d’una popolazione abbandonata al cinismo della politica che calzando il turbante, la divisa, il doppiopetto se ne infischia del presente e del futuro. 

Enrico Campofreda




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