venerdì 25 novembre 2016 - Fabio Della Pergola

Jan Assmann: dai monoteismi alla Religione Universale

Da molte parti si levano le voci di chi indica nel monoteismo l’ambito originario e prioritario di quella intolleranza che fa degli “altri” - i fedeli di altre religioni - degli insopportabili “diversi”.

Anche se non tutti sono d'accordo con questa tesi, sembra evidente che alterità e diversità diventino qui - in ambito religioso - i termini su cui giocano poi i politici più biechi per alimentare lo scontro irrimediabile cui i nazionalismi avevano già dato, e continuano a dare, le forme istituzionali più coerenti (e anche le catastrofi più recenti).

Sul concetto di monoteismo sono stati scritti i classici fiumi di parole, ma per essere esatti non è opportuno limitarci all’interpretazione “quantitativa” che indica nel dio monoteistico un dio unico (o, meglio, l’unico dio).

Il termine stesso è infatti composto da due elementi: il primo (mono) attiene alla componente numerica (uno vs. molti), il secondo (teismo) rimanda a thèos che - secondo il biblista Carlo Enzo - indica l’Assoluto. Vale a dire proprio quel “dio” che vive di vita propria, trascendente e assolutamente separata dal mondo materiale di cui questo Ente astratto sarebbe il creatore

È l’ente a cui noi moderni (di impostazione culturale monoteistica) pensiamo quando sentiamo il termine “dio”. E questo, se prendiamo per buona l'interpretazione di thèos, potrebbe indurre in qualche errore concettuale.

Parlando, ad esempio, del culto del sole del faraone egizio ribelle Amenofi IV, Akhenaton, non sembra essere del tutto corretto l’utilizzo del termine “monoteismo”, usato da uno dei maggiori egittologi contemporanei, il tedesco Jan Assmann, perché se è vero che Aton era considerato l’“unico” oggetto di culto da Akhenaton, è altrettanto vero che il sole era (e lo è ancora) un elemento della natura, non un ente filosoficamente “assoluto” come il thèos.

Si intuisce quindi una discrepanza fra l’elemento quantitativo (mono è corretto) e quello qualitativo (thèos non lo è) nell’uso del termine “monoteismo”.

Sarebbe insomma più giusto riferirsi piuttosto ad una monolatrìa, cioè ad un culto di un unico, generico oggetto di culto, lasciando stare l’Assoluto che qui c’entra davvero poco.

Tutto questo discorso per arrivare ad una interessante intervista rilasciata all’Espresso proprio dal già citato Jan Assmann, in cui parla del suo originale concetto di Mosaische Unterscheidung, “distinzione mosaica”, per sostenere l’ipotesi che il monoteismo come noi lo conosciamo sia attribuibile ai brani biblici in cui la parola è data al profeta Mosè.

Assmann, correttamente, evita di cadere nella trappola teologica che afferma l’aprioristica esistenza di un unico dio nel testo biblico e sostiene anzi che gli estensori della Bibbia parlavano del dio di Israele e (anche) degli dèi di altri popoli; avevano cioè una mentalità chiaramente politeista. L’esistenza degli altri dèi giustificava la “gelosia” del dio di Israele che, se fosse stato unico, non avrebbe avuto motivo di essere geloso.

Ma, dice Assmann, la “distinzione mosaica” consiste nel definire il dio di Israele come “vero dio”, mentre tutti gli altri sarebbero “falsi dèi”. Introducendo questa dicotomia vero/falso, Mosè (o chi per lui) avrebbe introdotto l’idea che l’unico vero dio è anche l’unico realmente esistente. La sua verità ne assicurerebbe l'esistenza, tanto quanto la falsità degli altri dèi attesterebbe la loro inesistenza. Da qui il monoteismo biblico.

La sua teoria, ventennale e pubblicata in vari libri, viene riconfermata in questa intervista.

Peccato che ai primi del 2016 sia stato pubblicato per Morcelliana un ultimo piccolo libretto-intervista - Il disagio dei monoteismi - in cui Assmann stesso, l’intervistato, sorprende tutti dicendo che in realtà i brani “mosaici” della Bibbia non contengono affatto questa famosa distinzione da lui sostenuta, tra vero e falso, che sarebbe, casomai, attribuibile allo zoroastrismo persiano (il quale diventerebbe così, ipso facto, l'origine di ogni intolleranza monoteistica).

La “distinzione mosaica” slitterebbe piuttosto dal concetto di vero/falso a quello di fedele/infedele. Il famoso Mosè si sarebbe quindi limitato a dire agli antichi israeliti che avrebbero dovuto essere fedeli al dio di Israele e non al dio di qualcun altro. Tutto sommato un'ovvietà.

Dalla concettualizzazione più astratta (vero/falso) ad una molto più pragmatica chiamata alla compattezza nazionale rivolta ad un popolo impegnato a cercar di definire se stesso nel marasma storico del Vicino Oriente antico. Un popolo chiamato ad essere fedele ad un’unica bandiera, ad un unico Elohim, quello di Israele, per distinguersi da assiri, babilonesi, egizi o persiani che fossero.

Il termine quantitativo (mono) quindi non è più corretto in questo caso, perché l'infedeltà, uno dei due termini della "dicotomia mosaica", presuppone l'esistenza di divinità altrui con cui, eventualmente, si possa commettere l'infedeltà stessa.

Inoltre - ci dice ancora Carlo Enzo nell’intervista già citata - Elohim non indica l’Assoluto, indica quell’ente che simbolicamente rappresenta l’identità collettiva di quel popolo, lo “spirito del popolo ebraico”.

Quindi né il componente numerico né quello qualitativo di “monoteismo” sembrano essere corretti per indicare la realtà della mentalità giudaica, ancor più che nel caso del culto egizio di Aton. Al più si deve convenire che pur conoscendo una pluralità di elohim, gli antichi israeliti ne scelsero uno solo come proprio.

Anche in questo caso sarebbe quindi più vicino alla verità parlare di monolatrìa, non di monoteismo, tanto più se ci riferisce alla distinzione fedele/infedele che sembra essere attinente proprio all’idea di “spirito del popolo”. Cioè in senso etnocentrico, non teologico.

Resta il fatto che, superata la disquisizione archeo-storica, oggi dobbiamo necessariamente parlare dei tre monoteismi esistenti - usciti vincenti dall'antica querelle teo-filosofica - che, salvo l’estremo oriente indo-cinese, hanno monopolizzato culturalmente tutto il mondo.

Assmann sostiene che bisogna superare le divisioni storiche fra queste tre religioni (anche se quella ebraica è numericamente irrilevante) per uscire dal dramma degli scontri di civiltà e dell'intolleranza che devasta la modernità.

Ma non lo fa proponendo un approfondimento culturale capace di dare voce e visibilità a chi non condivide l’idea stessa di esistenza di dio (uno qualsiasi), quanto di accedere ad una religione duplice, quella nativa (rivelata) - propria di ogni specifico ambito culturale - e quella universale (naturale) di tutto il genere umano.

È idea sviluppata in un altro suo libro, Religio duplex: come l'Illuminismo reinventò la religione egizia che ha trovato un notevole estimatore nello studioso di mistica Marco Vannini (uno che ha immaginato un originale cristianesimo in salsa buddista) il quale ha recensito, con un buon anticipo di un paio di anni, la sua ultima fatica nientemeno che sull'Osservatore Romano.

Come se, sopra le divisioni teologiche conosciute, esistesse ed andasse trovata un’unica “grande religione universale” uguale per tutti. Un super-monoteismo capace di risolvere i motivi di scontro e di rendere tutti (o, quantomeno ebrei, cristiani e musulmani) compiaciutamente soggetti ad un Unico Super-Dio. E quindi in pace fra di loro.

Un’idea a occhio e croce molto astratta e poco praticabile, ma soprattutto poco originale dato che ripercorre le strade già battute da tanta religiosità di tipo massonico con l’idea del Grande Architetto o in tempi più recenti dai sostenitori del Disegno Intelligente, la forma vagamente laicizzata del divino.

Se oggi ne parla anche l'organo della Santa Sede, dobbiamo pensare che l'idea possa essere coerente con l'ipotesi avanzata al TG3 da Ilaria Bonaccorsi, direttrice di left sull'iperattivismo di Jorge Bergoglio: questo Papa si dà un gran daffare per difendere ecumenicamente l'idea religiosa in sé, non in particolare quella cristiana.

E se il vero intento fosse quello di rendere concettualmente ammissibile la religio duplex?

L’intenzione pacificatrice di Assmann è apprezzabile, ma la mente umana di tutto ha bisogno tranne che di progettare una nuova Super-Religione da innestare sopra quelle già esistenti.

Già c'è Papa Francesco con il suo stuolo di incomprensibili entusiasti, ci mancava anche la super-proposta teologica degli egittologi neoilluministi.

 



4 réactions


  • GeriSteve (---.---.---.168) 26 novembre 2016 08:29

    La fede rende ciechi:
    "i tre monoteismi esistenti hanno monopolizzato culturalmente tutto il mondo"

    L’autore non vede le tante culture animiste e i tanti atei nel mondo.

    " Mosè si sarebbe quindi limitato a dire agli antichi israeliti che avrebbero dovuto essere fedeli al dio di Israele e non al dio di qualcun altro"

    Che Mosè si sia mai rivolto agli israeliti è probabilmente una balla che sta scritta nella bibbia.
    A partire dal nome, tutti gli indizi portano a ritenere che, se davvero esistito, Mosè fosse un sacerdote egizio dell’Aton, preso a prestito dal nazionalismo ebraico di mezzo millennio dopo. Già Spinoza fu perseguitato dalla sua comunità ebraica per aver sostenuto che, ovviamente, non era vero che Mosè avesse scritto i cinque libri della Thorà.

    Ma sono tutti argomenti inutili contro la cecità della fede.

    GeriSteve


  • Fabio Della Pergola (---.---.---.128) 26 novembre 2016 08:57

    Certo che vedo che nel mondo c’è altro. Ne ho scritto in altri articoli (ad esempio qui

    "La religiosità diminuisce, ma solo in Occidente", ma devi ammettere che, a parte l’estremo oriente, la cultura dominante o è cristiana o è islamica, non certo quella degli aborigeni australiani o degli eschimesi. E nemmeno quella atea.

    "Mosè si sarebbe limitato..." eccetera. Parlo qui - e l’ho scritto - di quello che hanno scritto gli estensori della Bibbia, non ritengo che Mosè abbia mai parlato dal momento che è notoriamente una figura mitica. La Bibbia trasmette una serie di miti fondativi dell’Israele antico che non sono diversi dai miti fondativi di altre culture. Se si vuole si può definire "balla" un mito fondativo, ma mi sembra è un po’ inutile. Un mito non parla di fatti realmente accaduti, non è una cronaca, è altro. E liquidarlo come una semplice "balla" potrebbe impedire di coglierne i contenuti, spesso interessanti da un punto di vista storico-culturale.
    In ogni caso è vero Mosè è nome teoforico di origini egizie, non ebraiche (moses, da Tut-moses o simili ecc.). Ovviamente le interpretazioni "teologiche", come avrai capito, non mi interessano. Il pericolo di una deriva teologica, oggi, non sta certo in chi crede che i racconti biblici siano veri, casomai in chi, come Assmann e altri, filosofeggia di un trascendente "superiore" e ancora più astratto (cioè oltre i miti).


  • GeriSteve (---.---.---.168) 26 novembre 2016 19:18

    Ovviamente, io non so quanto Mosè sia mitico e cosa ci sia di storico, ma il suo nome non ha proprio niente di relativo a dio e su questo (ingenuamente) proprio la bibbia è chiara:
    "tu sei nato dalle acque, quindi ti chiamerai Mosè" (cito a memoria).

    Questa affermazione sembrerebbe insensata, ma ha un senso chiaro e semplice, quasi tautologico, in un contesto egizio:
    MSS (Mosè) vuol dire "nascita" e questa è rappresentata con un geroglifico in cui si ha il triangolo pubico da cui scendono le acque appena "rotte".
    Quindi l’evento "nascita dalle acque" rappresenta perfettamente in termini di narrazione cio’ che il geroglifico "nascita" rappresenta iconicamente.

    Questo non dimostra granchè sulla eventuale figura storica di Mosè, ma dimostra che o ha vissuto o è stato mitizzato in ambito egizio, e non certo ebraico.

    Gli scribi ebrei che, durante la schiavitù babilonese, hanno voluto costruire una forte identità religiosa nazionale hanno dovuto saccheggiare tradizioni di altri popoli proprio per la carenza di precedenti tradizioni ebraiche.

    GeriSteve


  • Fabio Della Pergola (---.---.---.128) 26 novembre 2016 20:05

    Confermo quello che scrivi: Giovanni Semerano è stato un noto filologo e, a proposito del nome Mosè, ha scritto che

    la sua origine: «sarebbe da ritrovarsi in egiziano ms (ragazzo, nato), che entra come componente di nomi teoforici come Rameses, Thut-mosi (egiz. ṣḥūt-mǒśe)». Il nome rimanda quindi alla terminologia egizia, come ho già scritto.
    Peraltro tutta la parte iniziale del libro della Genesi ha palesi riferimenti a racconti della mitologia sumerica e babilonese. Esistono comunque anche temi prettamente ebraici nel testo biblico. Gli antichi israeliti hanno quindi inglobato elementi delle culture circostanti - compresa quella persiana - integrandoli nel loro racconto fondativo. Cosa che d’altra parte hanno fatto anche altri popoli secondo una tradizione integrativa più che sostitutiva. I babilonesi ad esempio hanno rielaborato molti temi sumerici ed elementi dello zoroastrismo sono arrrivati fino al cristianesimo attraverso correnti dell’apocalittica giudaica anche se non ne siamo più consapevoli. Il termine "saccheggiare" quindi ha un senso inutilmente polemico.


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